Benvenuti nel nostro sito web

Benvenuti nel nostro sito web - Luchitta Alberto

Nel nostro sito potrete trovare informazioni sull'attività di ricerca storico-economica e letteraria del Professor Alberto Luchitta.


Bibliografia Dott. Luchitta Alberto

 

1. Slattati, scolari, donzelle,  in Ospitalità sanitaria in Udine, Casamassima, Udine, 1989, pp. 155-172.

Tratta dell'assistenza ai minori in Udine tra i secoli XVII e XVIII.

 

2. Evoluzione delle fonti demografiche: fonti "di stato" e fonti "di movimento",   in Il ciclo della vita, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1990,  pp. 59-60.

Evoluzione delle diverse tipologie di fonti demografiche "ufficiali" e loro utilizzazione.

 

3. L'industria cotoniera nella Contea di Gorizia e Gradisca, in Annali di Storia Isontina, n. 3,  1990,  pp. 65-87.

Esamina la storia dell'industria cotoniera austriaca dal 1800 al 1915. Su fonti archivistiche si basa la parte dedicata all'evoluzione dell'industria cotoniera goriziana attraverso la storia delle ditte maggiori.

 

4. Gorizia ed i Ritter in una dimensione europea, edito dal Comune di Gorizia, 1990.

Ruolo sociale ed economico di una famiglia di imprenditori nella Gorizia dell’Ottocento.

 

5. Lo sviluppo industriale della Principesca Contea nelle Relazioni della Camera di Commercio di Gorizia, in Economia e società nel Goriziano tra ‘800 e ‘900, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1991, pp. 67-122.

Disegno generale dello sviluppo industriale nell'Ottocento goriziano, con particolare attenzione al problema dei trasporti ferroviari.

 

6. Dalla Nuova Olanda alla figulina, in Fabio Asquini, tra Accademia e sperimentazione, Magnus Edizioni, Udine, 1992,  pp.75-82.

La storia di una piccola manifattura di ceramiche di Fagagna (UD) alla fine del XVIII secolo.

 

7. Storia, viaggi, turismo, una discussione da aprire, in Grado e la Provincia Isontina, n. 4 agosto 1993, pp. 21-23.

Introduzione alla storia del turismo.

 

8. Dalla storia all'attualità: turismo e territorio nell'Isontino, in Grado e la Provincia Isontina, n. 6 dicembre 1993, pp. 81-83.

Breve excursus storico nelle tendenze del turismo nella provincia di Gorizia dal 1850 ai giorni nostri.

 

9. Banche, banchieri e la "finis Austriae". A proposito di un libro "attuale", in "Quaderni Giuliani di storia", nn. 1-2, Gennaio - Dicembre 1993. Breve storia della finanza austriaca.

 

10. Il treno nell'Ottocento: realtà ed immagine simbolica, in Il centenario della ferrovia Monfalcone-Cervignano, 1894-1994. Fumaioli e rotaie da Trieste alla "Bassa". Il valico ferroviario orientale ieri, oggi, domani, a cura di A. LUCHITTA, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1994, pp. 7- 16.

 

11. La questione ferroviaria di Trieste. Note sul valico ferroviario orientale 1836-1914, in Il centenario della ferrovia Monfalcone-Cervignano, 1894-1994, cit., pp. 17- 30.

 

12. Le ferrovie locali nelle Principesche Contee di Gorizia e Gradisca 1850-1914: progetti e realtà, in Il centenario della ferrovia Monfalcone-Cervignano, 1894-1994, cit., pp. 31- 42.

 

13. I treni dell'Impero d'Austria, nel catalogo della mostra Panorami della Mitteleuropa, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1994. Breve storia delle ferrovie austriache nel XIX secolo.

 

14. Le impressioni di viaggio del signor di Montaigne, in "Grado", Edizioni della Laguna, Monfalcone, aprile 1994. Il diario di viaggio di un turista ante litteram, il signor di Montaigne (XVI secolo).

 

15. La ferrovia della Bassa Pianura, in “Grado e la provincia isontina”, maggio giugno 1994.

 

16. Treni e turismo nella provincia di Gorizia: memoria e proposte,  in “Grado e la provincia isontina”, n. 5 settembre 1994, pp. 29-31.

 

17. Le fornaci del Friuli austriaco (1800-1914), in  Banca n. 8, maggio 1994, pp. 15-17, edita a cura della Cassa di  Risparmio di Gorizia. Breve storia dell'attività di produzione di laterizi nel XIX secolo nella Contea di Gorizia e Gradisca.

 

18. Elaborazione di una scheda didattica  mirata alle esigenze delle scuole elementari sulla storia ed il significato sociale del  credito cooperativo, pubblicata nel 1994 a cura della Cassa Rurale di Lucinico, Farra e Capriva.

  • Lo scrivente ha curato, inoltre, la sezione stabile sul credito agrario presso il museo della civiltà contadina di Farra inaugurata il 14 novembre 1993.

 

19. Teoria dell'imprenditore in J.S. Mill e prassi di una dinastia di imprenditori goriziani, i Ritter  in  Banca, rivista della Cassa di Risparmio di Gorizia, n. 8. maggio 1994.

 

20. Dal viaggiatore al turista, in Come viaggiavamo. Treni e turismo tra Ottocento e Novecento, a cura di A. LUCHITTA e M. BRESSAN, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1995, pp. 28-38.

 

21. Il nostro amico treno, in “Grado e la provincia isontina”, n. 3, luglio 1995, pp. 10-11.

 

22. Da Trieste a Cervignano. Storia e progetti turistici (1850-1914), in Come viaggiavamo. Treni e turismo tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 51-61.

 

23. Il ponte dell’arcobaleno. La ferrovia Cervignano-Belvedere, in Come viaggiavamo. Treni e turismo tra Ottocento e Novecento, cit., pp.62-70.

 

24. La Contea di Gorizia. Contributo per una storia della manifattura e dell’industria (secoli XVIII-XX), in Cultura tedesca nel Goriziano, a cura dell’Istituto di storia sociale e religiosa, Gorizia, 1995, pp. 257-288.

 

25. I miti imperfetti. Gorizia, dalla “Nizza austriaca” alla “Santa Gorizia”, in Banca, rivista della Cassa di risparmio di Gorizia, n. 13, gennaio 1996, pp. 19-21. Breve disegno del turismo goriziano nel XIX secolo.

 

26. Cronache ferroviarie e vita goriziana nel primo decennio del secolo XX, in AA.VV. Transalpina, un binario per tre popoli, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1996, pp. 128-143. Dai giornali del primo decennio del Novecento emergono le caratteristiche socioeconomiche di una città, Gorizia.

 

27. Macchine, progresso e “civiltà” nella Trieste di Pasquale Revoltella, in AA.VV., Pasquale Revoltella, sogno e consapevolezza del cosmopolitismo triestino 1795-1869, Arti Grafiche friulane, Udine, 1996, pp. 463-481. La figura di Revoltella quale esponente di una civiltà e di una lettura particolari del mondo della seconda metà del XIX secolo.

 

28. I caratteri della storia economica isontina, in Il fuoco cammina. Fornaci e fornaciai tra Iudrio e Vipacco (1900-1970), a cura di P. Francescon e A. Mauchigna, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1996, pp. 25-47.

 

29. La fornace romanese: aspetti di storia dell’impresa, in Il fuoco cammina, cit., pp. 51-83. Storia dell’impresa produttrice di laterizi a Romàns d’Isonzo (1900-1970).

 

30. Appunti di storia turistica goriziana 1850-1940, in Quaderni Giuliani di storia, anno XIX, n. 1, gennaio - giugno 1998, pp. 33-48. Sintesi ragionata delle caratteristiche del turismo Goriziano tra il 1850 ed il 1940.

 

31. Gorizia: aspetti dell’economia provinciale tra le due guerre mondiali 1918-1940, in Quaderni Giuliani di storia, anno XIX, n. 1, gennaio - giugno 1998, pp. 77-110. Primo approccio alle problematiche economiche del periodo tra le due guerre mondiali del Novecento nella provincia goriziana.

 

32. Trieste 1900-1905: economia e traffici, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Trieste, 1997, Publisport, vol. I, pp. 24-25. Trattazione delle caratteristiche salienti dell’economia triestina negli anni interessati.

 

33. Trieste 1906-1914: economia e traffici, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Trieste,  1997, Publisport, vol. I, pp. 122-123.

 

34. Trieste, 1906-1914: edilizia e costo della vita, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Trieste, Publisport, vol. I, p. 241.

 

35. 1915-1918. L’economia e la Grande Guerra, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1998, vol. II, pp. 68-69.

 

36. 1919-1922. L’economia del dopoguerra, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1998, vol. II, pp. 196-197.

 

37. 1923-1930. I traffici del porto triestino, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1998, vol. III, pp. 44-45.

 

38. L’industria triestina e la Zona Industriale, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1998, vol. III, pp. 200-201. Gli anni Trenta del Novecento a Trieste.

 

39. L’intervento pubblico nell’economia, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1998, vol. IV, pp. 66-67. Gli anni Trenta del Novecento a Trieste.

 

40. Gli accordi del 1934 per il porto di Trieste, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste,1998, vol. IV, pp. 131.

 

41. Mario Alberti, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1998, vol. IV, p. 193. Cenni biografici su un dimenticato economista triestino.

 

42. Il cuore di legno. Falegnami e mobilieri a Cormòns tra ‘800 e ‘900, Istituto di credito cooperativo di Lucinico, Farra, Capriva, Cormòns 1999. Storia dei falegnami e delle fabbriche di mobili a Cormòns (Gorizia). Monografia.

 

43. Trieste e il “Nuovo Ordine” europeo, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1999, vol. V, pp. 96-97. Vicende economiche a Trieste tra il 1941 e il 1943.

 

44. Gli effetti economici del conflitto, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1999, vol. V, pp. 256-257. Gli effetti della seconda guerra mondiale sull’economia triestina.

 

45. Il duro dopoguerra: la questione sociale, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1999, vol. VI, pp. 44-45. Gli anni 1946-1954 a Trieste.

 

46. 1946-1954, il nuovo orizzonte economico, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1999, vol. VI, pp. 204-205.

 

47. Il fragile “miracolo” triestino, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1999, vol. VII, pp. 38-39. Gli anni Sessanta del Novecento a Trieste.

 

48. Economia: porto, traffici, commerci, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 1999, vol. VII, pp. 254-255. Gli anni Sessanta del Novecento a Trieste.

 

49. 1963-1970: “la grande trasformazione”, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 2000, vol. VIII .

 

50. 1963-1970: per il porto anni di transizione, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 2000, vol. VIII.

 

51. L’Ente Regionale e Trieste, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 2000, vol. VIII. I rapporti tra Trieste e la Regione Friuli Venezia Giulia.

 

52. 1971-1978. Gli anni del grande riflusso, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia, Publisport, Trieste, 2001, vol. IX, pp. 102-103. La crisi degli anni Settanta del Novecento a Trieste.

 

53. L’utopia di Osimo. L’Accordo economico, in  Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2001, vol. IX, pp. 240-243. Le conseguenze economiche dell’accordo di Osimo per Trieste.

 

54 Gorizia asburgica. Miti, potere, vita materiale, in AA.VV., Il segno degli Asburgo, a cura di F. Salimbeni ed R. Sgubin, Musei Provinciali di Gorizia, Gorizia, 2001, pp. 43-67.

Veloce percorso nella storia economica della provincia goriziana tra 1500 e 1915.

 

55. La Camera di Commercio di Gorizia 1850-2000. Uomini e lavoro in 150 anni di storia, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2001. Storia della Camera di Commercio ed Industria di Gorizia dalla fondazione ai nostri giorni. Monografia.

 

56. Scritti sulla storia economica della provincia di Gorizia, secoli XVIII-XIX, Istituto Giuliano di storia, cultura e documentazione, Monfalcone 2001. Monografia miscellanea. Raccoglie testi di carattere socioeconomico sulla storia della Provincia di Gorizia.

 

57.   1979-1986: il porto insegue i cambiamenti, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,      Publisport, Trieste, 2001, vol. X, p. 27.

 

58. Economia: gli anni della ristrutturazione, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2001, vol. X, pp. 68-69. Vicende economiche triestine tra 1979 e 1986.

 

59. Sui metodi dell’economica. Gli scritti di Mario Alberti. In “Quaderni del Centro Studi economico-politici Ezio Vanoni”, n. 2/2004, Trieste.

 

60. 1987-1993: l’economia negli anni della rivoluzione, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XI, p. 29.

 

61. L’economia in una città pietrificata, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XI, p. 59.

 

62. Il porto di Trieste e i suoi mali oscuri, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XI, p. 129.

 

63. Una città industriale avviata al tramonto, in Trieste 1900-1999. Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XI, p. 169.

 

64. Lo scrivente ha firmato la raccolta di profili biografici dei presidenti delle Camere di Commercio di Udine (periodo 1866-1943), di Trieste e Gorizia (periodo 1918-1940), in Giuseppe PALETTA (a cura), Dizionario biografico dei presidenti della Camere di Commercio italiane, Unioncamere italiana, Rubbettino Editore, Catanzaro, 2005, Tomo I, pp. 298-311.

 

65. L’Austria e con essa l’Adria! Turismo e società nell’Austria Marittima 1890-1914, in Belle Époque imperiale. L’arte e il design, Catalogo della mostra, Musei Provinciali di Gorizia, 2005, pp. 139-146.

 

66. Mobili e società tra XIX e XX secolo, in Belle Époque imperiale. L’arte e il design, Catalogo della mostra, Musei Provinciali di Gorizia, 2005, pp. 163-170.

 

67. Le popolazioni carsiche della signoria duinate. Standard di vita, attività, rapporti con il potere. Dominatori e dominati nella Signoria di Duino tra XVI e XVIII secolo, Quaderni del entro Studi economico politici  Ezio Vanoni, n.ro 1-2, Gennaio Giugno 2005. Monografia.

 

68. 1993-1999. Trieste porta dell’Est?, in Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, p. 27.

 

69. 1995. Transizione e sue conseguenze, in Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, pp. 64-65.

 

70. 1995. Il comparto industriale triestino, Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, pp. 78-79.

 

71. 1995. Il porto nell’ultimo decennio del secolo XX, in Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, pp. 84-85.

 

72. 1996. Trieste e il rapporto con Capodistria, in Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, pp. 126-127.

 

73. 1900 – 1999: affinità e diversità, in Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, p. 223.

 

74. 1999. Il problema della destinazione del porto vecchio, in Cent’anni di storia,  Publisport, Trieste, 2005, vol. XII, p. 239.

 

75. L’economia dell’Istria italiana, 1890-1940, edito a cura dell’ANVGD, Gorizia, 2005. Monografia. Attraverso la raccolta e lo studio di fonti edite la monografia traccia, senza pregiudizi, un primo disegno delle iniziative italiane in Istria tra il 1920 ed il 1940.

 

76. Dedicato alle rivoluzioni. Festival Goriziano della storia. Assente l’analisi dei rapporti tra  storia ed economia, in “Trieste Arte e cultura”, Hammerle Editori, luglio 2007, n. 113, pp. 4-5.

 

77. Gli archivi del quotidiano nobiliare. Spese per la cucina e l’abbigliamento d’alcune famiglie aristocratiche nel secolo XVIII, in AA.VV., Abitare il Settecento, a cura di R. SGUBIN, Musei Provinciali di Gorizia, Gorizia, 2008, pp. 255-272.

 

78. Gente che va, gente che viene. I registri della pensione “Fortino” di Grado (1923-1942), in AA.VV., Joseph Maria Auchenthaller. Un secessionista ai confini dell’Impero, a cura di R. FESTI, esaExpo s.r.l., Trento, 2008, pp. 61-68.

 

79. Conferenza su Auchenthaller e la pensione Fortino di Grado. Un artista e un luogo testimoni delle speranze e delle catastrofi centroeuropee, tenuta il 25 giugno 2008 presso la sede dei Musei Provinciali di Gorizia, palazzo Attems Petzenstein, piazza De Amicis 2, Gorizia e reiterata a Grado, presso la Biblioteca Civica, via Leonardo da Vinci 20, il 9 settembre 2008 (disponibile materiale su PowerPoint).

 

80. Consumi quotidiani dei ceti aristocratici nel secolo XVIII. Alcune serie storiche del Friuli Venezia Giulia, in “Quaderni del Centro Studi economici e politici Ezio Vanoni”, NN 1-2, Gennaio –Giugno 2008.

 

81. Continuità e contraddizioni goriziane nei rapporti economici con il mondo transalpino (secoli XVI-XX) in AA.VV., Cultura tedesca nel Goriziano, a cura di Liliana Ferrari, Istituto di Storia sociale religiosa, Gorizia, 2009, pp. 67-93.

 

82. Ciclo lezioni su “3000 anni al Timavo” tenute tra l’11 novembre e l’11 dicembre 2009 per conto Università Trieste. Cinque lezioni di storia economica e sociale nell’area di Duino e del Timavo (materiale su Power Point). Sono presentati documenti locali assolutamente inediti.

 

83. Ciclo di lezioni  sulla storia dei viaggi e del turismo “Da Ulisse al turista contemporaneo” tenute tra l’11 febbraio e il 4 marzo marzo 2010 per conto Università Trieste (materiale su Power Point).

 

84. Relazione tenuta alla conferenza Lions del Mediterraneo il 2 aprile 2011 avente per titolo:

Desertificazione: fenomeno antropico e climatico”. Si esaminano i costi sociali del degrado territoriale in Italia e nel Mediterraneo sulla base dei dati dell’occupazione territoriale in ambiti geologicamente compromessi.

 

85. Relazione tenuta a Povoletto il 21 ottobre 2011 nell’ambito delle manifestazioni 2011 dell’associazione Ator pal mond di Udine. Titolo: “Prodotto agricoli per l’alimentazione e per la produzione industriale: trend dei prezzi internazionali e probabili conseguenze sociali e politiche (primo decennio XXI secolo). La relazione si occupa del trend dei prezzi nel settore agricolo con accenni a precedenti storici e ad altre tipologie di merci (energia).

 

86. 31 marzo 2014. Conferenza sui vitigni locali dell’area Alto Adriatica, tenuta a Trieste presso la sede locale del’AIS (Associazione Italiana Sommeliers). Dinamiche storiche dell’allevamento della vite e dei vari vitigni con attenzione particolare al periodo di transizione del secolo XIX.

 

87. 17 novembre 2014. Conferenza sulle attività imprenditoriali della famiglia Ritter di Gorizia tenuta per conto della Chiesa Evangelica di Gorizia.

 

88. Alberto LUCHITTA e Maddalena GIUFFRIDA, Vite maritata, in “Vitae”, mensile dell’AIS, giugno 2015, pp. 82-89. L’articolo esamina le dinamiche storiche della cosiddetta “piantata padana”, antico metodo d’allevamento della vite.

 

89. Alberto LUCHITTA e Maddalena GIUFFRIDA, La vite in Alto Adriatico, in “Vitae”, mensile dell’AIS, giugno 2016, n. 106, pp. 44-51.

 

90. 17 novembre 2016. Conferenza sulla storia della Camera di Commercio di Gorizia, tenuta in occasione della fusione delle Camere di commercio, industria, agricoltura di Gorizia e Trieste nella nuova Camera Giuliana.

Gli organi di stampa della Società Agraria di Gorizia

e i principali filoni di discussione tra XIX e XX secolo.

Di Luchitta Alberto

 

L’ i.r. Società Agraria di Gorizia nasce nel 1765 nell’ambito del programma teresiano di sviluppo economico austriaco[1].

In questa sede ci occuperemo delle pubblicazioni sociali nel XIX secolo, dalle quali emergono esigenze d’innovazione, ma anche le contraddizioni dell’agricoltura goriziana e le sue arretratezze strutturali. Questi temi rientrano negli studi sulla famiglia Ritter di Gorizia perché, direttamente o indirettamente, i fratelli Ettore e Guglielmo, esercitarono un cospicuo influsso nei dibattiti sullo sviluppo agricolo della Contea a volte non con gli scritti, ma con l’innovazione pratica. Ettore entra nella Società Agraria nel 1845, Guglielmo nel 1851, ed è vicepresidente sociale dal 1871 fino alla fine, nel 1885[2]. Eugenio (figlio di Ettore) dopo la morte del padre, è lo sperimentatore a Monastero (Aquileia), coadiuvato dal cognato La Tour. Nel pamphletLe nuove risorse del Friuli Goriziano” Eugenio traccia, a sua volta, nuove prospettive di sviluppo agricolo. Le figure dei tre Ritter e del La Tour si collegano, in ogni modo, all’immagine sociale del possidente, per quanto innovatori essi possano essere. Vedremo, alla fine di questa trattazione, le conseguenze politiche e culturali del loro ruolo.

Nella prima metà del secolo le pubblicazioni della Società Agraria goriziana non presentano una periodicità costante. Tentativi si rintracciano negli anni 1824 e 1826[3], 1829[4], 1835[5], 1844[6] e 1849-1852. In quest’ultimo periodo sono pubblicate le “Memorie” della Società Agraria che escono con cadenza irregolare e con uno spazio limitato. Accanto a queste troviamo anche “La Cerere”, redatta e pubblicata sotto gli auspici della Società. Dopo l’uscita di un primo numero il 16 marzo 1850, “La Cerere” è pubblicata con regolare cadenza settimanale tra il novembre 1850 e l’ottobre 1851: il periodico contiene articoli di notevole interesse sia dal punto di vista economico che sociale[7]. Il programma esposto nel primo numero è particolarmente lucido, perché si afferma che il foglio vuol essere strumento di contatto e di confronto tra i più intelligenti cultori delle cose agricole[8]. Notevole il fatto che, su “La Cerere”, compaiano, spesso, notizie concernenti i lavori della Camera di Commercio goriziana, alla cui presidenza è Ettore Ritter.

L’iniziativa, però, non riesce a consolidarsi nel tempo, presumibilmente per la mancanza di fondi.

Tra le pubblicazioni della Società Agraria, però, dobbiamo annoverare anche i “Calendari per l’anno comune”, editi tra il 1842 e il 1877. In essi si ritrovano istruzioni per le coltivazioni, statistiche del Goriziano, articoli dedicati all’agricoltura, all’allevamento, ma anche all’industria. Forse sono proprio i “Calendari” a consolidare l’impegno della Società in campo editoriale.

Gli avvenimenti degli anni Cinquanta del secolo XIX contribuiscono alla definitiva presa di posizione del sodalizio, nell’ambito della divulgazione e dell’informazione agraria. Fino a quegli anni vino e bozzoli sono i prodotti principali del Goriziano: a livello commerciale essi assicurano a proprietari e contadini, pur nell’ambito dei classici contratti colonici[9], redditi sufficienti ai consumi e alla ricapitalizzazione d’entrambe i ceti. Nel secondo lustro del decennio, però, l’agricoltura goriziana è colpita da gravi malattie che si rivelano, poi, endemiche e persistenti nel tempo. Le vigne sono colpite dall’oidio prima, dalla peronospora poi, e, infine, dalla fillossera. Nel settore serico l’atrofia dei bachi riduce drasticamente il raccolto di bozzoli per l’intera seconda metà dell’Ottocento.

Gli esponenti più dinamici del mondo agrario si rendono conto che le ataviche tecniche agrarie non possono trarre gli agricoltori dal circolo improduttivo “caduta dei redditi – minori investimenti – caduta dei redditi”, ecc. La crisi non perdura per due, tre anni, ma si prolunga per la seconda metà del secolo, aggravata dagli sviluppi del commercio internazionale che permettono l’afflusso di derrate agricole da ogni parte del mondo, ma, soprattutto, dalla concorrenza interna ungherese dopo il 1867[10]. I piccoli e medi proprietari subiscono l’erosione dei loro magri capitali, e la mancanza di strumenti di credito dedicati rende impossibili gli investimenti, la riparazione d’immobili e attrezzi. D’altra parte le sfide delle malattie della vigna e dei bachi devono essere analizzate e comprese, al fine d’organizzare la risposta. Sono necessarie informazioni su nuovi metodi per contrastare le malattie e riorganizzare le colture.

Nel 1860 Giuseppe Ferdinando del Torre di Romans, uno tra i più attivi sperimentatori in campo agricolo, richiama l’esigenza di un organo di stampa sociale: alla mancanza di fondi propone di supplire chiedendo l’aiuto della Camera di Commercio, il cui presidente è, come già ricordato, illustre socio e membro della Deputazione centrale della Società, Ettore Ritter. Nell’anno successivo (1861) la proposta è ripresa in sede di discussione presso la Deputazione centrale.

Così nel gennaio 1862 esce il primo numero della nuova pubblicazione sociale, “Atti e memorie della Società Agraria di Gorizia.

Nel primo fascicolo i deputati dirigenti si augurano che tutti i soci partecipino agli atti che li terranno tra l’altro informati in  “… scoperte, invenzioni, ed esperienze di altre società agronomiche, annunzi di opere particolarmente commendevoli in fatto d’agricoltura, arti e commercio, come su piantagioni o semi, repertori di buoni strumenti, … “[11].

 

 Immagine tratta da “Atti e memorie dell’i.r. Società Agraria”, fascicolo 1899, pag. 325.

 

Si tratta di un programma informativo articolato, che va ben oltre l’ambito prettamente agrario[12]. D’altra parte l’agricoltura è considerata il settore produttivo più importante dell’Impero, quasi motore immobile di tutte le altre branche dell’economia, trasporti, industria, servizi: la Società goriziana ripercorre, pertanto, il sentiero fisiocratico, anche se è vero che l’agricoltura rimane fino alla fine del dominio asburgico il settore prevalente dal punto di vista occupazionale nella Cisleitania in generale e nella Contea goriziana in particolare[13]. I membri della Società non sono solo grandi o piccoli possidenti fondiari; tra essi ritroviamo il funzionario provinciale o statale, il maestro e il professore, il dirigente industriale e l’artigiano, il sacerdote e il contadino[14]. La Società si propone come corpo trasversale rispetto alle gerarchie economiche e sociali, associando quanti aspirino a portare idee e contributi pratici alla modernizzazione della Contea e dell’Impero.

Uno degli scopi fondamentali dell’Ente è, infatti, l’innovazione in tutti i settori economici. L’innovazione, però non è neutrale: non si può, in altri termini, raccomandare macchine a vapore e attrezzi innovativi, senza scalfire i rapporti sociali. L’errore fondamentale della Società è di prescrivere l’innovazione, illudendosi di glissare i problemi legati ai tradizionali rapporti di produzione.

La presenza di una possidenza medio-piccola, afflitta da una cronica mancanza di capitali, al fianco di proprietà vaste e omogenee, ben fornite di capitali e inclini a modificare radicalmente i rapporti di produzione nelle campagne, evidenzia che non vi è comunanza d’interessi all’interno della possidenza. Si va da un possidente vecchio stile come Ernesto Coronini, a uno studioso e sperimentatore come Luigi Chiozza, a un manager di livello internazionale come Ettore Ritter. Il presidente Claricini è un personaggio del vecchio establishment, che appoggia la divisione e vendita dei beni comunali con l’obiettivo di aumentare la produttività, ma diffida dell’abbandono del colonato, classico sistema di gestione dei fondi agricoli, imperniato sull’affitto a coloni, parzialmente cointeressati al raccolto. Il pensiero legato alla stabilizzazione sociale è espresso chiaramente nell’articolo di G. B. Zecchini nel 1862 “Se meglio convenga la conduzione dei poderi col sistema colonico o con quello delle grandi fattorie”[15].

L’autore riflette che, al fine di evitare il disordine sociale, la colonia o la mezzadria sono più utili dei salariati perché “ … riteniamo che il voler cambiare le condizioni di un paese, sostituendo ai coloni gli operai, distruggendo la famiglia ch’era legata al campo, dal quale ritraeva il vitto e lo divideva col signore, per condurvi il mercenario che non ha alcun legame con il suo signore, … che non impara una parola di amore e di carità, di civiltà, perché queste povere creature sono considerate come ruote di una macchina, … sia un sistema che non può essere riprovato abbastanza. Ogni miglioramento che avvenga nella società, perché sia reale ed efficace, deve di necessità recare un utile non a pochi individui, ma alla moltitudine”.

 

Tratto da “Atti e memorie dell’i.r. Società Agraria”, fascicolo 1899, pag. 324.

 

Il fine idealistico della società, pervaso di sentimento cristiano e umanitarismo settecentesco, è espresso ancor più chiaramente dal già citato Giuseppe del Torre, che così scrive il 24 ottobre 1862: “La società agraria ha per fine l’industria agricola: questa non è che un mezzo … lo scopo finale è l’uomo …”[16]. Elevazione dell’uomo dal bisogno, dall’ignoranza, dalla sudditanza, dall’ignavia.  In questa prospettiva gli obiettivi più importanti riguardano lo “scopo uomo”.

Eppure lo “scopo uomo” appare straordinariamente lontano in una questione apparentemente banale come quella della difesa degli uccelli insettivori. Questi animali sono importanti per l’equilibrio agricolo perché distruggono grandi quantità d’insetti. Ma durante la stagione invernale i contadini ne fanno strage. Pratica assolutamente deprecabile, considerata nell’ambito della razionalità agricola degli illuminati della Società d’agricoltura. Ma se pensiamo alle difficoltà alimentari del contadino delle campagne goriziane, stretto nel monofagismo del granturco, la pratica dell’uccellagione svela le tragiche problematiche della sopravvivenza di persone che, intrappolate negli schemi dei contratti di colonato, sono costrette a ricorrere ad espedienti per garantire una meschina alimentazione alla propria famiglia.

 

Biblioteca ERSA. Ampelografia Italiana, Ministero d’Agricoltura e Commercio, Torino 1885.

 

Pensare che il mondo agricolo debba funzionare come una macchina bene oliata mantenendo i vecchi meccanismi di subordinazione sociale è pura illusione. Il disagio contadino non tende a scemare neppure nei primi lustri del XX secolo. Nell’articolo “La pellagra nel Friuli Orientale” del 1904, leggiamo che l’incidenza della pellagra su ogni mille abitanti, nei distretti di Cervignano, Cormons, Gradisca e Monfalcone aumenta da 8,5 nel 1895 a 10,3 nel 1904[17], indice delle perduranti difficoltà alimentari dei coloni della Bassa Pianura. La trappola dei contratti colonici non scatta, però, solo per i contadini. Anche i proprietari sono colpiti nelle loro rendite con le conseguenti difficoltà a pagare le imposte. Se ne rende conto G. Velicogna, autore dell’articolo “Le nostre miserie” del 1890: “Studino (i proprietari) poi i modi di addivenire ad una radicale riforma del vigente sistema del contratto colonico, a merito del quale, se i coloni stanno male, i padroni stanno peggio[18]. Quanto sono distanti queste parole da quelle scritte da Giuseppe de Persa nel Calendario sociale del 1856 nell’articolo “Sulle affittanze coloniche”: “… il lavoro pagato col soldo fisso è smisuratamente più caro del lavoro libero, perciò l’affittanza dà infatti una maggior rendita nitida di fronte all’economia propria condotta a mezzo di lavoranti pagati …[19].

A conclusione di questa breve discussione, si ritiene opportuno ricordare che la storiografia contemporanea ha messo più volte sotto accusa il comportamento della possidenza goriziana, incapace di innovare e di investire sui propri fondi[20]. Alla massa dei proprietari si contrappongono i pochi innovatori come i Ritter (Ettore, Guglielmo ed Eugenio, cui aggiungiamo il La Tour) o Luigi Chiozza. Dobbiamo, a mio parere, però, “storicizzare”, cioè calarci nell’ambiente del tempo. La cultura agronomica scientifica del tempo era poco accetta in un ambiente come quello goriziano, imbevuto di cultura antiquaria e di spirito gerarchico. Nella seconda metà del XIX secolo presso l’Istituto di bacologia ed enologia di Gorizia lavorano studiosi di dichiarata fama internazionale come Friedrich Haberland, Giovanni Bolle, Adolfo Postl, Francesco Gvozdenovic, Arturo Devarda, Adolfo Beneschovsky, Francesco Wohac. Gli studi viticoli ed enologici di questi ricercatori stupiscono ancora oggi per la loro attualità, precisione e lungimiranza ma, soprattutto, per la visione integrata con cui affrontano i problemi. Esempio significativo è l’indagine sulle caratteristiche della viticoltura del Collio e della valle del Vipacco, che includono analisi pedologiche, caratteristiche ampelografiche dei vitigni, sistemi di coltivazione. Cultura e ambiente goriziani, però, che non si discostavano molto da quella della società imperiale, dove dominava ancora la vecchia aristocrazia[21]. Se Ettore, Guglielmo, Eugenio Ritter hanno alle spalle l’esperienza del commercio internazionale, dell’industria meccanizzata, dell’innovazione tecnico scientifica, se Luigi Chiozza, riconosciuto valente studioso, scambia osservazioni scientifiche con Pasteur, queste esperienze sono fuori della portata di gran parte dei possidenti, gravati, per di più, da una pesante fiscalità costantemente deplorata.

 

Accorgimenti per la distruzione di insetti nocivi agli alberi da frutto in “Atti e memorie della Società Agraria di Gorizia”, fascicolo 1876, p. 37.

 

Nella seconda metà del XIX secolo, a livello internazionale, il mondo della produzione e del commercio cambia rapidamente (relativamente ai parametri del tempo)[22]. Elettricità, motore a scoppio, navi a vapore e a elica, nuovi soggetti giuridici, come le società per azioni, introducono nel mondo economico un dinamismo sconosciuto a memoria d’uomo. I problemi del ritardo sono discussi anche dell’ambito della Società Agraria. Nell’assemblea generale tenuta il 28 dicembre 1900, è illustrata la “Relazione del comitato per lo studio delle riforme sociali da attivarsi in seno alla Società Agraria”. Gli estensori della relazione, forse su ispirazione di Eugenio Ritter, propugnano la creazione di consorzi e altre associazioni agrarie, sulla falsariga delle Casse Rurali sostenute dal movimento cattolico: i membri più illuminati della Società si rendono conto che non è più sufficiente l’informazione, è necessario dare agli agricoltori nuovo peso sociale e rappresentanza riunendoli in vaste organizzazioni. L’analisi sul futuro dell’agricoltura presente nella “Relazione” è illuminante: “Le recenti conquiste della chimica e della tecnologia agraria, portarono in questi ultimi anni una rivoluzione in tutte le industrie agrarie, così da bandire completamente l’empirismo dall’agricoltura facendone una vera scienza per sé; così pure la grande rivoluzione avvenuta nei mezzi e nelle possibilità di trasporto ha creato specialmente all’industria agraria condizioni del tutto nuove tendenti a eguagliare i prezzi venali dei singoli prodotti dei diversi paesi, i quali vanno man mano decrescendo in proporzione al loro minimo costo di produzione.

Queste radicali innovazioni cambiarono l’esercizio dell’agricoltura dalla forma patriarcale del passato, in una vera e propria industria, la quale, come ogni altra, per far fronte alla crescente concorrenza mondiale abbisogna di un vistoso capitale d’intelligenza e di non poche risorse pecuniarie, necessarie per poter operare in grande, per poter ottenere buoni prodotti primi e a buon mercato e per confezionare gli stessi possibilmente nel paese di produzione[23].

Scienza e tecnologia, quindi, ma anche cospicui investimenti e, di conseguenza, disponibilità di strumenti creditizi. Ricordiamo che già Ettore Ritter aveva posto l’accento su questo problema L’esigenza di credito accessibile era molto sentita nell’ambito della possidenza: da rilevare che, quando a Capriva nasce la prima Cassa rurale nel 1896, la direzione del nuovo organismo è formata interamente da possidenti[24].

Un altro punto importante accennato nella “Relazione” è la rivoluzione dei trasporti. Aspetto dolente quello dei trasporti su lunghe direttrici perché fino al 1906, quando è inaugurata la ferrovia Transalpina, manca un efficiente collegamento ferroviario con i grandi mercati di consumo austriaci, capace di allargare effettivamente lo smercio di ortaglie e frutta secca della Contea goriziana, come auspicato da Eugenio Ritter[25] e da Karl Czoernig[26]. Nei primi lustri del Novecento le necessità di cambiamento sono, ormai, stringenti[27]. Appare difficile che il piccolo mondo aristocratico goriziano, in equilibrio sul limitare di tre culture, possa cambiare rapidamente in senso efficientistico dal punto di vista economico. La soluzione delle contraddizioni goriziane, scelta da gran parte della classe dirigente, espressione dei possidenti, nei primi decenni del XX secolo è, anzi, la fuga verso i nazionalismi. Questa scelta comporta l’ostilità alla cultura tedesca, vista non come veicolo d’integrazione con i vasti mercati imperiali, ma percepita come entità estranea, e, infine, la contrapposizione tra le popolazioni italiana e slovena.

In questa momento storico politico, tra gli sconfitti annoveriamo Eugenio Ritter e i suoi avi, promotori di progetti per lo sviluppo commerciale e produttivo sempre osteggiati. Sconfitta è, però, anche la Società Agraria che per oltre cinquant’anni ha cercato di introdurre modernizzazione e innovazione, senza, però, poter superare la profondità dei contrasti sociali e culturali.

Le sfide economiche e sociali dei primi anni del Novecento sono affrontate dalla dirigenza goriziana con le soluzioni più semplici dell’opportunismo politico e della contrapposizione culturale che sfociano nel nazionalismo e nella guerra.

Il brano seguente è tratto dalla Chronik und Stammbaum der Familie Ritter (1915). Nelle ultime righe della cronaca, Eugenio Ritter riflette sulla situazione sociale e politica della Contea goriziana. Con molta amarezza e un po’ di stupore si rende conto che la sua opera e quella dei suoi avi ha portato innovazione e modernità nelle campagne, ma non è riuscita a garantire l’equilibrio sociale e il ruolo egemone della famiglia.

Non vorrei chiudere lo scritto senza aver espresso con poche parole le vicissitudini attuali nella nostra zona costiera, ora mi trovo al tramonto della mia vita. E qui in questa terra che ho trascorso la maggior parte della mia vita, dove 100 anni or sono arrivò Giovanni Cristoforo Ritter da Francoforte sul Meno.

Mi ricordo molto bene i tempi della mia infanzia a Gorizia, sede principale della famiglia, quando in occasione di festività si mossero fino a 24 carrozze (Equipagen). Ed ora non si vede più nessuno. Solo un Ritter, mio cugino Dott. Rudolf Ritter v. Z. si trova ancora a Gorizia ed insegna al ginnasio. Qui nella provincia sono giunti giorni funesti. Appoggiati da circoli influenti sono entrati gli Socialcristiani. La popolazione rurale è stata presto conquistata da loro. Io stesso, vecchio cittadino onorario di Aquileia, dovetti cedere. Dopo alcuni scioglimenti del consiglio elettorale non sono più stato eletto nel consiglio comunale. Ora tocca al latifondo liberale. Per i coloni, che dai tempi dei Romani e attraverso rivoluzioni varie stettero sempre fedeli dalla parte del padronato, è stata escogitata la cosiddetta legge del colonato. Qui non è il luogo adatto per mettersi a scrivere sui pro e contro, ma una cosa può essere detta, che questa nuova legge non porta nulla di buono né per il latifondo, né per i coloni. Tutta l`agricoltura, come del resto parte dell`industria, soffrono molto per gli stipendi alti che la vicinanza del Porto di Trieste trasferisce nelle campagne. Recentemente si fanno sentire anche gli stipendi pagati a Monfalcone, stipendi così alti non possono essere sopportati dall`agricoltura.

Con tutti i mezzi disponibili si lottò nelle ultime elezioni contro il latifondo, perché soccomba, e si votò socialcristiano. Che la fortuna assista noi ed i nostri fedeli alleati in questa tremenda guerra, dandoci la bramata vittoria. Che la pace porti nuova vita in tutti i campi ed idee nuove e sane nella nostra terra costiera. Questo è il desiderio del più anziano della famiglia Ritter.

 

 

 

Biblioteca ERSA. Weinbau und Kellerwirthschaft in Frankreich.  J.F. Zawodny, Innsbruck, 1894.

 

 



[1] Sulla nascita della Società Agraria di Gorizia cfr. Tommaso FANFANI, Brevi note sulla fondazione della “Cesarea Regia Società d’Agricoltura nelle principate Contee di Gorizia e Gradisca”, Del Bianco, Udine, 1976.

[2] Enrico Guglielmo Ritter è anche amministratore contabile della Società Agraria. Nel fascicolo degli “Atti” del 1883 la deputazione centrale riconosce “… il buono stato delle finanze della Società è dovuto all’opera del vicepresidente Enrico Guglielmo Ritter”. Cfr. Biblioteca Statale Isontina (poi BSI), “Atti e Memorie dell’i.r. Società Agraria di Gorizia” (poi AMSAG), anno XXII, fasc. 1, 1883.

[3] Le pubblicazioni sono citate a p. 6 degli “Atti dell’i.r. Società Agraria” del 1844.

[4] Fascicolo su “Istruzioni sugli ingrassi e sui foraggi”.

[5] Fascicolo su “Proposta per l’introduzione delle tenute modello”.

[6] “Atti dell’i.r. Società Agraria”, 1844. La pubblicazione riguarda l’attività 1842 e 1843 della Società Agraria.

[7] Un articolo sulle “Case del popolo” illustra, ad esempio, l’importanza di garantire abitazioni decorose ai ceti più umili per tutelare la moralità e la pace sociale. Cfr. “La Cerere”, anno II, n. 33 del 14 giugno 1851, pp. 259-263.

[8]Uno dei più grandi ostacoli al progresso della nostra agricoltura è l’isolamento dei suoi intelligenti cultori, i quali, separati fra loro non ebbero fin ora un mezzo facile di comunicarsi i loro pensamenti, di paragonare i loro metodi e di dedurre delle più positive verità da questi confronti”. Cfr. “La Cerere”, anno I, n. 1 del 16 marzo 1850, p. 4.

[9] Sotto il termine “patti colonici” si indica un regime contrattuale misto e molto variabile: tra i corrispettivi si citava l’affitto del podere coniugato al regime di mezzadria per determinati prodotti. Nei contratti si prevedevano anche delle vere e proprie “servitù” (ad esempio il servizio per trasporti con carri a favore del proprietario.

[10]L’Ausgleich del 1867 si rende necessario per consolidare la monarchia asburgica dopo la sconfitta con la Prussia di Bismark. Esclusa dalla Germania e costretta a cercare spazio nei Balcani, la monarchia asburgica stabilisce con l’ Ausgleich un patto d’alleanza con la nazione ungherese. Austria e Ungheria sono unite nella persona del sovrano, hanno politica estera e comando militare unificati, ma, dal punto di vista economico, Cisleitania (Austria) e Transleitania (Ungheria) sono autonome.

[11] Cfr. BSI, “AMSAG”, anno I, fasc. 1, gennaio 1862.

Il presidente della’Accademia, in quegli anni, era Alessandro de Claricini. I membri della deputazione centrale erano: Ernesto co. Coronini, Antonio barone Drechsel, Carlo dr. Doliac, Ferdinando Huber, Gianbattista Juretig,  G.E. mons. Mosetizh, Andrea Pauletig, Andrea de Pasconi, Michele Pecorari, Ettore cav. Ritter.

[12] Nel 1881, ad esempio,  in un articolo su “Atti e Memorie” l’articolista auspica la nascita di Banche popolari agrarie al fine di favorire il credito anche per i lavoratori delle campagne, sconfiggendo, così, l’usura, principio di disperazione ed emigrazione per le genti delle campagne. Una lucida anticipazione delle Casse rurali cattoliche che nasceranno a partire dal 1896.

[13] I dati occupazionali confermano la prevalenza del settore agricolo nella vita economica comitale. “Nel 1858 la percentuale degli addetti al settore industriale era il 4,73% della popolazione residente, nel 1890 tale percentuale era passata al 17,59%; nel 1908 l’incidenza del settore agricolo sul totale della popolazione attiva era del 65%, …”. Cfr. Alberto LUCHITTA, Lo sviluppo industriale della Principesca Contea nelle relazioni della Camera di Commercio di Gorizia”, in “Economia e società nel Goriziano tra ‘800 e ‘900, a.c. di Furio Bianco e Maria Masau Dan, Edizioni della Laguna, Monfalcone, 1991, p. 120.

[14] La presenza di contadini nella Società era auspicata già alla nascita del sodalizio. Cfr. FANFANI, op. cit.

[15] BSI, AMSAG, fasc. 9, 1862, pp.73-80.

[16] Ibidem, fasc. 11, Adunanza generale in Gradisca 24 ottobre 1862.

[17] BSI, Atti e Memorie, 1904, p. 81.

[18] Ibidem, 1890, p. 360.

[19] Calendario dell’i.r Società Agraria di Gorizia, anno 1856, p.

[20] Si veda in particolare Furio BIANCO, “ -L’armonia sociale nelle campagne- Economia agricola e questione colonica nella Principesca Contea di Gorizia e Gradisca tra ‘800 e ‘900”, in “Economia e società nel Goriziano tra ‘800 e ‘900, cit., pp. 33-66.

[21] Sui temi del ritardo austriaco in campo economico cfr. Herbert MATIS e Karl BACHINGER, Österreichs Industrielle Entwiklung, in AA.VV., Die Habsburgermonarchie 1848-1918, vol. I, Die Wirtschaftliche Entwiklung, Vienna 1984, pp. 114 e sg.

[22] Nel 1884 in un articolo suAMSAG” si leggeva: ”Gli Stati Uniti nel 1830 esportavano per l’Europa cinque milioni di ettolitri di grano, nel 1881 esportarono per l’Europa centoquarantatre  milioni di quintali tra biade e farine, vi portarono 178000 quintali di burro, e 580000 quintali di cacio Cherster e Stiltorn, e tre milioni di balle di cotone … gli Stati Uniti insieme nel 1880 mandarono nell’Europa mezzo milione di barili di mele, trecentomila quintali di olio di cotone … costruirono sedicimila mietitrici”. Cfr. BSI, “AMSAG”, fascicolo 1884, anno XXIII, pp. 15-18.

[23] Cfr. BSI, “AMSAG”, fascicolo 1900, anno XXXIX, p. 336.

[24] Non si può, ovviamente, trascurare anche la possibilità di controllo sociale che la presenza nella direzione della Cassa Rurale offriva ai possidenti.

[25] Eugenio Ritter è citato tra i promotori della frutticoltura e dell’essicazione nell’articolo “L’industria dell’essicazione naturale” in AMSAG, 1900, anno XL, p. 257. Per quanto riguarda lo sviluppo della produzione orticola si veda invece Eugenio RITTER, Le nuove risorse del Friuli goriziano, Gorizia, 1888.

[26] Cfr. Karl CZOERNIG, “Gorizia stazione climatica”, in “Gorizia la Nizza austriaca “, vol. II, Cassa di Risparmio di Gorizia, 1969-1987, p. 113 e 117. Tra il 1870 ed il 1890 l’esportazione di frutta essiccate ed ortaggi dal Goriziano mostra, in ogni modo, una tendenza ascendente. Dopo una visibile ascesa tra 1870 e 1880 (media annuale per gli ortaggi quintali 5012, per la frutta essiccata quintali 5409), si nota una stabilizzazione nel periodo 1881-1885 (media annuale per gli ortaggi quintali 6528, per la frutta essiccata quintali 5865), seguita da una nuova ascesa tra 1886 e 1890 con una media annuale di 12243 quintali per gli ortaggi e di 15765 quintali per la frutta essiccata. Cfr. G. BOLLE, “L’esportazione delle frutta ed ortaglie da Gorizia”, BSI, “AMSAG”, 1900, p.175. Questa tendenza ascendente è attestata anche per il periodo 1900- 1902. Ibidem., 1902, “Il mercato d’esportazione delle frutta e ortaggi in Gorizia nel triennio1900-1901-1902”, p. 286.

[27] Nella seduta della Deputazione centrale della Società Agraria, ad esempio, si concorda sull’invio di un memoriale al Ministero del Commercio per richiedere l’imposizione di dazi protettivi su vini, carni, grani, causa l’impossibilità di reggere i costi di produzione e i prezzi competitivi delle derrate importate da Stati Uniti, Italia, Russia, Balcani. Cfr. BSI, “AMSAG”, 1900, p. 110-117.  Lo sviluppo economico mondiale del tempo aveva ormai reso marginale il comparto agricolo della Contea, e solo attraverso dazi protettivi, sulla falsariga dell’industria, gli operatori del settore speravano di salvarsi.

Commento al testo di Ivan Cankar "Martin Kacur" - parte prima

“Martin Kačur” di Ivan Cankar

Analisi del testo letterario

Il romanzo di Cankar è un testo ricco di temi e di simbolismi[1]. Nella storia del maestro Martin Kačur[2] e nel suo viaggio attraverso il mondo asburgico, Cankar ripercorre la vicenda umana di un giovane maestro[3], ricco di grandi ideali, gran sognatore, ma fondamentalmente incapace di realizzarli[4]. Un’esperienza che, da un lato, risponde a caratteristiche universali e rintracciabili, in modi diversi, nell’etica e nella letteratura di tutte le società organizzate[5], e che fu ripresa da Cankar anche in altre opere come, ad esempio, in Un re a Betajnova. Nella figura dell’eroe solitario e ribelle, prediletta da Cankar, alcuni hanno voluto vedere collegamenti con il pensiero nietzschiano. Certamente ci sono assonanze tra i due letterati: ad esempio il contraddittorio, ma viscerale e necessario rapporto con il cristianesimo, o la fiducia nelle forze della passione e dell’inconscio. Anche Nietzsche rifiuta i compromessi ed afferma la superiorità della “vita” nei confronti di qualsiasi inquadramento intellettuale o sociale: dove per “vita” intende gli elevati spiriti vitali di pochi eletti (i grandi, gli eroi) per i quali le masse sono semplici strumenti da utilizzare senza alcun condizionamento[6]. In questa concezione individuiamo, però, un netto crinale di separazione con le tematiche di Cankar. Ben diverso è, infatti, l’eroe di quest’ultimo, pronto al sacrificio ed alla ribellione contro l’autorità, ma in una prospettiva escatologica sociale, per quanto vaga essa sia.

Il mobile scenario che il giovane Kačur attraversa ci aiuta, però, anche a ripercorrere, in chiave simbolica e non senza sottili e amare ironie, la storia politica e sociale, e anche culturale della Slovenia della seconda metà dell’Ottocento. Di là della trama asciutta ed essenziale, il testo può essere inteso come un possente affresco storico, fortemente  segnato da spunti autobiografici. 

Al suo interno è possibile, pertanto, individuare vari temi: alcuni di carattere universale, altri legati al particolare momento storico e nazionale del popolo sloveno negli ultimi decenni di vita dell’impero asburgico.

L’analisi per temi ci permette di enucleare i simbolismi e di dare corretto risalto a personaggi o situazioni che ad una prima lettura possono apparire superficiali o disegnati con esagerato sarcasmo, ma rappresentano in realtà dei “tipi” contro cui si scagliano i dardi letterari dell’autore.

 

Il tema del paesaggio

Il paesaggio che fa da cornice alle vicende nelle tre parti del romanzo, s’accorda con gli stati d’animo del protagonista e ne segue la maturazione  e lo svolgimento psicologico[7]. Esso funziona come una cassa di risonanza dei sentimenti del maestro Martin, e li amplifica, in positivo o in negativo,

Nella prima parte della vicenda l’arrivo a Zapolje è festoso, pieno di speranza. Il breve sguardo della ragazza “dalla camicetta rossa” precede la “pianura libera e immensa”. La strada che la diligenza su cui viaggia Kačur imbocca è “larga e bianca”, e la cittadina appare scintillante “in un vivo e fresco splendore”, circondata da un anfiteatro di boschi “immensi”. Di fronte a quest’orizzonte in cui lo sguardo quasi si perde, l’animo del maestro è incantato.

“La bellezza che contemplavano i suoi occhi ne innalzava i pensieri – già da prima alti e felici – al settimo cielo; e rabbrividiva in quell’attesa festosa. Sentiva le forze dilatarsi, e la sua vita espandersi e impetuosamente fiorire e tumultuosamente protendersi verso il futuro”.

L’ampiezza e la luminosità del paesaggio sembrano assecondare i grandi progetti del maestro. Siamo di fronte alla primavera del personaggio, sottolineata anche dalla sua giovinezza. Una primavera in cui tutto è possibile: dall’amore per la ragazza di Bistra alla realizzazione dei suoi sogni. Una primavera caratterizzata da una cornice “solare” che, nel primo incontro con la cittadina, nasconde ogni ombra e sembra allontanare qualsiasi difficoltà.

“Guardò la gente per strada – impiegati, contadini, operai – ed ebbe l’impressione che con tutti loro avrebbe potuto vivere affabilmente e in amicizia, poiché non c’era un solo viso che sembrasse scontento o antipatico”.

E dopo un breve momento di malumore pensando ai duri e realistici consigli del dottor Brinar, è sempre il sole a distoglierlo da un pessimismo appena accennato quando esce dall’osteria e si reca a prestare i suoi omaggi ai notabili del paese:

“Non c’era più un filo di nebbia e un caldo sole autunnale – amabile e allegro – gli diede il saluto accarezzandogli il viso”.

Un primo motivo d’incertezza per le speranze del giovane si rintraccia però nei segni del paesaggio urbano di Zapolje. Seduto all’osteria appena sceso dalla diligenza, nota “la bianca chiesetta che scintillava ai piedi di un poggio” e poco sopra “un’altra chiesetta, bianca e infiammata dal sole del mattino”. Il negozio del sindaco è “grande”, la canonica del curato è “alta e bianca”. Anche la casa del direttore scolastico si presenta piacevolmente grazie a muri bianchi e luminosi, con le imposte e il recinto dipinti a colori vivaci. La scuola invece è “un edificio vecchio e grigio”, con l’intonaco che cade dai muri e le finestre piccole e buie. La casa del cappellano è anch’essa “tetra e buia”, ma circondata da un rigoglioso giardino. Di fronte a questa la scuola appare “…ancora  più squallida e cupa”. Il contrasto indica la scarsa considerazione in cui è tenuta l’istruzione a Zapolje, atteggiamento sociale confermato dalle parole del sindaco:

. “ … Che i bambini studino pure il tedesco… a che serve tutto il resto? I contadini, figurarsi! La cultura, il progresso… si va bene! Ma c’intendiamo nevvero?”

A fronte di un saldo potere economico e politico del clero e dei notabili, che si traduce anche in simboli architettonici indicanti un controllo neppure molto discreto. Le condizioni della scuola danno una prima indicazione delle difficoltà cui va incontro il maestro. I segni della prima giornata annunciano già il naufragio del progetto di Kačur per la creazione di un centro culturale e la sua espulsione da quello che possiamo definire “il giardino dell’Eden” .

Ben diverso il paesaggio di Blatnidol che annuncia il crollo ideale di Kačur e la sua maturità, che è la stagione del disinganno. Egli arriva nel villaggio in seguito alla morte per suicidio (e questo fatto presenta già un aspetto sinistro) del maestro precedente. L’aspetto del villaggio è tale da deprimere il protagonista:

“Il villaggio si estendeva per lungo e per largo, ma era così tetro e sudicio che Kačur non aveva – prima di allora – mai visto niente del genere. Anche se il sole splendeva su tutto il resto del mondo, per le vie di Blatnidol il fango dilagava in vaste pozzanghere. Situato in un profondo avvallamento, il paese era circondato da colline altrettanto squallide e desolate, ricoperte di misera sterpaglia”.

L’edificio della chiesa, così scintillante e bianco a Zapolje, a Blatnidol è, al contrario, misero e spoglio:

“Gli altari erano rozzi, i santi di legno erano malsicuri e traballavano se qualcuno vi si avvicinava; il pulpito era di legno e faceva pensare ad un’enorme cesta vuota sopra una rozza colonna”.

Il prete stesso è, infatti, sceso al livello dei suoi parrocchiani, ottusi ed incivili. Qui il potere ecclesiastico ha un senso solo perché i contadini pagano le decime. A Blatnidol tutti, uomini ed animali, sono accomunati nell’ottusità ed inespressività. appare impossibile realizzare qualcosa di buono[8]. Come riferisce Kačur al maestro Ferjan che viene come testimone alle nozze, l’ambiente è saturo di “…umidità greve, asfissiante, che sale dalla terra; sono queste ombre che la opprimono senza tregua …”.

In questo passaggio il protagonista, oppresso dall’ambiente, cede agli istinti e alle debolezze, abbandonando le sue idee[9]. Ma, come vedremo, questo passaggio è indispensabile per annullare il suo orgoglio e renderlo capace di comprendere meglio la realtà che lo circonda. Alla fine egli s’ubriaca, si picchia con la moglie, ma nessuno ci bada perché è nell’ordine delle cose, ed egli non vive da signore[10].

Ben diversa la lettura del paesaggio di Lazi. Qui non c’è alcun edificio ecclesiastico dominante, le case sono “alte e bianche”, ma, soprattutto, cambia l’aspetto e la considerazione dell’edificio scolastico:

“La scuola era talmente bianca e luminosa, e il sole di mezzogiorno si rifletteva con tanta forza sulle sue grandi finestre, che Kačur ne restò abbagliato”.

Il sole di Lazi è l’astro che il protagonista ha sempre sognato, ma ora che lo vede brillare nella realtà, quando la rivoluzione si è compiuta, s’accorge che egli non ne è più adatto, e altri ne beneficiano. Il sogno, ch’egli contemplava dal sedile di pietra a Zapolje, lo ha abbandonato. Si è trasformato. Mentre su quel trono di pietra si sentiva padrone del futuro a Lazi non ha più il coraggio di volare, nonostante il paesaggio entusiasmante:

“L’oro inondava le alte case di Lazi, le finestre erano in fiamme …”

E quel paesaggio suscita in lui un ultimo anelito alla grandezza:

“ … aveva l’impressione che tutto l’immenso e luminoso paesaggio gli andasse incontro e che le colline e le radure calde e solitarie si innalzassero verso il cielo, addirittura nel sole; e di involarsi lui stesso con i campi, le colline, i prati e che quel cielo luminoso e la terra fossero nei suoi occhi, nel suo cuore …”[11].

Ma dopo quel mattino, mai più egli prese quel sentiero. Lazi non è la fantasia onirica di Zapolje, essa è il mondo reale, borghese, conformista e rispettabile, e questa realtà fatta di compromessi fa paura all’ex prigioniero di Blatnidol. A Lazi tutto parla di una società ormai laica, relativamente agiata, in cui però non mancano gli emarginati:

“Nella vallata verdeggiante, lungo un fiume, case alte e bianche si addossavano l’una all’altra; quanto più le vie se ne allontanavano e salendo s’inerpicavano in alto, tanto più le case erano misere e basse e ognuna sembrava prendere le distanze da quella vicina”.

Gli emarginati sono, quindi, presenti, ma “rimossi” dalla vuota società di Lazi. Kačur elegge suo luogo di svago una sudicia osteria in cui ritrova l’anima oscura di Blatnidol, che ormai gli è penetrata nelle fibre (è la sua vecchiaia fatta di disinganno), tra gli ubriaconi di professione e gli scontenti senza voce. Così, mentre a Zapolje era emarginato per le sue idee, a Lazi crea egli stesso la propria emarginazione, incapace di vivere in un mondo di finzione e di comodo conformismo borghese. Giunge così al compimento un processo d’ascesi al negativo grazie al quale l’uomo perviene alla perfetta umiltà, presupposto necessario alla più alta idealità.

 

La parabola della giovinezza.

Uno dei temi più cospicui rilevabili nella vicenda di Kačur è quello della forza dirompente della giovinezza[12]. Tema apparentemente banale, ma che, in realtà, presenta importanti aspetti psicologici, a livello individuale e sociale. Il contrasto familiare tra padri e figli rappresenta l’aspetto privato di quel conflitto generazionale che permette ai giovani di maturare la coscienza di sé e delle proprie potenzialità. Si tratta di un fenomeno fisiologico e utile, poiché in tal modo la società può acquisire nuove energie, idee, obiettivi. A volte, però, in situazioni istituzionali rigide e timorose delle novità, i giovani ribelli e contestatori sono emarginati dal sistema, o cooptati nella classe dirigente, e quindi privati della loro carica dirompente. Nello stesso tempo il sistema assorbe e metabolizza una minima parte delle innovazioni senza alterare gli equilibri politici e sociali. Quando l’immagine della classe dirigente è, invece, completamente squalificata, e si rivela necessario un nuovo contratto tra élites e popolo, allora le innovazioni proposte dai giovani innovatori riescono a trovare terreno fertile, alterando, non sempre in positivo e razionalmente, i connotati dell’ordinamento sociale.

La concezione della gioventù come forza rivoluzionaria[13] capace di portare alla rottura i vecchi schemi sociali assicurarono a Cankar le simpatie dei giovani sloveni che si riconoscevano nel Preporod, giornale che esprimeva un’ideologia composta di un miscuglio d’idee nazionali e sociali. Nel 1913 il Preporod scriveva: “Cankar tu sei diventato il nostro esempio, tu ci hai mostrato la strada, la gioventù riconosce in te il proprio ideale – l’ideale del ribelle e del rivoluzionario[14]. L’orientamento espresso nel testo di Cankar, anticipò la tendenza del dopoguerra ad assecondare e  ad apprezzare le idee e le mode giovanili.  Il regime fascista, ad esempio, basava la propria forza morale sul fatto di aver ampliato gli spazi per le forze giovani della nazione che avevano duramente combattuto nel primo conflitto mondiale. L’avvento di Mussolini al potere rovesciò i vecchi schemi dei partiti liberali, e portò un ricambio generazionale in molti posti chiave politici ed istituzionali, assolutamente impensabile prima della guerra. La concezione retorica della giovinezza propria del regime fascista s’iscriveva, in ogni modo, nella nuova considerazione che la gioventù (come segmento sociale anagrafico e culturale) conquistò dopo il 1918 in tutta la società europea. La perdita di moltissimi giovani sui campi di battaglia e le loro sofferenze nelle trincee attiravano su di essi la simpatia della società e delle élites culturali. Tale simpatia andava di pari passo con l’esigenza di un profondo rinnovamento della società europea, che aveva visto sprofondare nella guerra le certezze delle oligarchie liberali. Così, mentre nel periodo precedente il 1914, i giovani erano stati inquadrati nelle ideologie nazionaliste, emarginando i potenziali elementi rivoluzionari e perturbatori dell’ordine sociale, la società europea degli anni Venti volle essere ad ogni costo una società giovane, ostile ai vecchi schemi. Quello che i giovani amavano diventava un imperativo condiviso e, quindi, l’accelerazione dei cambiamenti in ogni ramo della vita sociale era accettato senza particolari opposizioni, nel rispetto delle aspettative giovanili.

Kačur esprime la sua gioventù con l’aspirazione a traguardi elevati e disinteressati, come il miglioramento della vita altrui. In questa sua considerazione, la gioventù come fatto biologico, riproduttivo e sociale è strettamente limitata. La sua giovane età, però, non suscita simpatia nelle persone che incontra. Per il postiglione che lo conduce a Zapolje è “ … un signore ancora così giovane, ed è piccolo!” Per il parroco egli, in quanto giovane, è una “pagina bianca”, un esempio di quella giovane generazione in cui il clero non ha fiducia:

“Ma le dico chiaro e tondo che non ho nessuna fiducia in questa giovane generazione. Ha fatto sue delle idee che non capisce,  e che non riesce a digerire; e poiché essa stessa è confusa, crea confusione anche nel popolo”.

Il direttore di Zapolje , pur essendo anziano, finge d’abbassarsi al livello del giovane maestro, ma esprime chiaramente la necessità che la scuola controlli e limiti le aspirazioni della gioventù:

“Lei sa – dice il direttore rivolto a Kačur – che nei giovani si devono sviluppare  sentimenti d’austerità e di modestia. In un’aula buia si studia meglio che in un’aula luminosa e con la pioggia i giovani sono più quieti di quando c’è il sole”.

La gioventù d’animo di Kačur lo convince che i notabili non sono pericoli seri per i suoi progetti, in quanto sono privi di principi, idee, convincimenti, e, quindi, non occorre combatterli. Essi sono disarmati! Lo spirito della gioventù, intesa come aspirazione a profondi, ma vaghi, cambiamenti sociali, lo convince della necessità di donare la sua vita per la causa del popolo. Quale lugubre anticipazione di tutti quei giovani morti donati alla causa della nazione! Il giovane idealista è fatto di idee e di sogni, non ha una realtà propria se non quella delle sue speranze. Allo stesso modo, egli s’innamora del suo sentimento amoroso, non della persona amata. Idealizza la fanciulla di Bistra, ed è quell’ideale che egli ama. Una selva di sogni e di simboli accompagna la sua corsa verso l’inevitabile fallimento. Quella che egli si trova ad affrontare è una realtà che non conosce, perché guarda il mondo dall’alto di un trono di pietra, staccato dai legami sociali di ogni genere: familiari, politici. Egli s’aspetta uno scontro virtuale, come si direbbe oggi, con i suoi avversari. Come i giovani tedeschi che partirono per il fronte nel 1914, tenendo nello zaino “Il canto d’amore e di morte dell’alfiere Cristoforo Rilke[15], Kačur non percepisce né sofferenze né paure, ma solo la necessità di donare la propria giovinezza. Dono che egli giudica necessario quasi come un sacrificio rituale.

Nello scontro con i contadini all’osteria Mantova di Zapolje, Kačur dona tumultuosamente la sua irruenza giovanile, ma perde la sua innocenza, perché di fronte alla zuffa tra operai e contadini fugge guidato dal medico Brinar. Questa fuga è il primo contatto con sensazioni sgradevoli come paura, coscienza del fallimento, impotenza. Quando in seguito sarà giudicato dal parroco e dal direttore, la sua ostinazione al sacrificio personale apparirà quasi ridicola ed infantile, come aveva già rilevato nel suo realistico scetticismo la ragazza di Bistra, Minka[16].

Nella vicenda del maestro Martin cogliamo l’inutilità delle raccomandazioni e dei consigli dei più anziani. La diffidenza generazionale impedisce ai giovani di far tesoro delle esperienze passate. Il medico Brinar e poi, nella seconda parte del romanzo, il curato di Blatnidol, ricordano i loro trascorsi rivoluzionari, ma concordano nell’inevitabile e necessaria ricomposizione dell’esperienza giovanile in sicuri ambiti sociali. 

L’arrivo a Blatnidol rappresenta per Kačur la perdita della giovinezza come motore ideale e il suo cedimento agli istinti giovanili di carattere biologico. Il matrimonio gli accolla responsabilità  con complicazioni pratiche mai considerate fino a quel momento: la necessità di procurarsi denaro per i mobili e gli abiti, la ricerca di una sistemazione per due. Il cambiamento più importante riguarda le responsabilità che Kačur deve assumersi nei confronti della famiglia, in quanto prima cellula sociale. Egli non è più libero di seguire le proprie idee, deve tener conto delle esigenze conservative del gruppo familiare. Il matrimonio significa la fine della giovinezza ideale e la perdita di quella libertà illimitata che, nel corso della sua vita precedente, gli aveva permesso di dissipare anni e occasioni di sistemazione sociale. È costretto, così, a rinunciare al progetto del circolo di lettura, per le minacce del sindaco e per le preghiere della moglie. Cade così nel discredito dei pochi che avevano creduto in lui, e questo accelera il suo degrado morale e fisico. Si mescola con gli abitanti di Blatnidol, tanto da non trovarli più ottusi, sembra mimetizzarsi nella realtà più terrena adeguandosi ai cicli della natura.

Quando arriva a Lazi il cambiamento più totale è avvenuto nelle persone e nella società. Kačur è un vecchio, non tanto quanto a età anagrafica, ma perché privo di stimoli, di fantasie, perché non ha nulla da dare agli altri. Tanto che Matilda, la maestra conosciuta a Zapolje dopo averlo definito “rivoluzionario in pensione”, gli si rivolge con parole sferzanti nell’osteria di Gašperin:

“Kačur, potrei dirle una cosa? Lei è squallido, molto squallido e noioso!”

E quando, poco dopo, Kačur cerca di baciarle una mano, Matilda la ritira seccata dicendo:

“Ma tu sei ubriaco, vecchio!”

Il protagonista si ritrova al punto di negare furiosamente i suoi trascorsi di agitatore idealista, e l’unico ricordo che, in segreto, trae dal profondo della sua perduta giovinezza è l’episodio sentimentale con la giovane Minka. Ormai è diventato per tutti  -l’uomo senza amore- dal “cuore di fango”[17]: è una maschera che gli è stata addossata a forza e che egli non sente sua. Ma il processo è irreversibile ed egli ritrova la propria giovinezza solo negli occhi del figlio maggiore, Tone, che gli impedisce di colpire la madre nell’ultima drammatica sera:

“Kačur ebbe di fronte a se un viso giovane, pallido; ma nell’attimo di folle orrore in cui stava per avventarglisi contro, gli sembrò che gli fosse già noto. Era il suo proprio viso: quello dell’uomo che tanto tempo prima s’era messo in cammino col cuore pieno di speranza”.

Si ripropone così il ciclo circolare delle generazioni, che già il dottor Brinar ed il curato di Blatnidol avevano evidenziato con la loro esperienza, legando strettamente la giovinezza alla speranza. Solo in quel momento il maestro capisce le loro anticipazioni, e comprende anche che il suo ciclo terreno è chiuso, fatto sottolineato dalla morte del giovane ed imperfetto Loize. Non gli resta ormai che una speranza ultraterrena che trova, alla fine, nel solitario dramma della morte.                             

 

La campagna e l’industria

Nel testo di Cankar non mancano accenni al mondo del lavoro. In particolare egli, con pochi tratti, delinea il contrasto generato tra il tradizionale lavoro dei campi e il timido sviluppo dell’industria che si compie, nella seconda metà del XIX secolo, in gran parte dei territori della monarchia asburgica. A Zapolje intravediamo la presenza di due fabbriche: una fabbrica di laterizi[18] ed una conceria[19]. La loro presenza è appena accennata, mentre ben disegnata è l’immagine dei campi in cui “… una lunga fila di donne dai fazzoletti multicolori e con le falci in mano se ne andava lungo un fossato: si fermarono e si misero a sedere sull’erba, ai piedi della strada. L’aria, fino ad allora limpida e fresca, s’era fatta calda e afosa, e il sole scottava come in agosto”[20]. Le fabbriche significano progresso, ma la campagna è colore e luminosità, il lavoro degli uomini e delle donne in campagna segue il ritmo eterno della natura, mentre la fabbrica crea un proprio mondo artificiale. Le contadine siedono sull’erba, al sole, mentre l’operaio consuma il suo pasto tra le macchine. Kačur appare molto lontano dal comprendere questo contrasto. In fondo egli è un uomo in cui il sentimento del popolo è strettamente legato a quello della terra. Non c’è un popolo senza terra, ma la terra esige sacrifici e sottomissione ai suoi cicli. È quello che egli comprende a Blatnidol. Qui non ci sono industrie, non c’è nemmeno il sentore del progresso, ci sono solo piccoli contadini, grandi proprietari e miseri braccianti. La terra circonda e schiaccia gli uomini come una matrigna, riprendendo con vigore il proprio predominio:

“Dalla terra gonfia di umidità, dai campi vicini, giungeva un sentore di primavera precoce; l’aria era piena di un odore greve che dava alla testa; la terra si stava destando e il suo primo alito era ansimante, afoso: portava con sé dei sogni voluttuosi, sensuali; il vento che si levava dai monti, si mescolava all’aria di Blatdnidol e alle sue nebbie stagnati, ed era caldo e stordiva come un amplesso immondo”[21].

 La terra a Blatnidol è padrona degli uomini, chiude le loro menti e prende i loro corpi come nel racconto di Kersnik I due padri Maček[22]. Lo stesso curato “vive come un contadino, in quanto vivere altrimenti è impossibile”. Rimesta anch’egli il letame, e alla funzione religiosa

“ … incedeva sull’altare a passi grevi, pesanti, come se si trovasse nei campi dietro all’aratro, e apriva il tabernacolo con una mano callosa, da contadino, come se aprisse la porta di un fienile”.

 A Lazi la campagna allenta la presa ed è lasciata quasi in disparte. Un solo breve accenno all’arrivo nella borgata, ma un accenno che si vela di un aspetto sinistro:

“In lontananza si sentì affilare una falce, nei campi scintillarono dei fazzoletti bianchi, una lama si levò e divampò nel sole”.

La campagna profonda si ritira dallo sfondo, ma essa pesa ancora sull’animo del maestro, e s’affila la lama della sua catastrofe umana e della sua morte. 

 

Il tema della violenza

 

All’inizio del racconto Kačur afferma che tutti gli uomini sono buoni. Egli rifugge da qualsiasi tipo di violenza, anche verbale, e pensa che i rapporti tra gli uomini possano essere regolati sulla base di ragionevoli accordi. Ritiene che i casi della vita abbiano reso aride e prive di alti ideali le persone. Le vicende alle quali va incontro lo fanno però ricredere, ed egli stesso, ad un certo punto, esercita violenza nei confronti degli altri. Nell’osteria Mantova Kačur si scontra duramente con i contadini, e le parole offensive da lui usate possono essere considerate un atto di violenza indirizzato a parte dell’assemblea:

“Avevo fatto io gli inviti, ma tra gli invitati è arrivata anche gente che non merita di trovarsi tra noi e che meglio starebbe tra le sue bestie, nella stalla!”

La rissa che segue, preceduta dal lancio di un bicchiere all’indirizzo del maestro, è il segnale di come la violenza sia in grado di frenare lo sviluppo culturale del popolo. Cankar denuncia la violenza in ogni senso, soprattutto quella subdola ed espressa per allusioni di coloro che detengono il potere. Nel colloquio con il direttore ed il parroco di Zapolje il protagonista è sottoposto ad un processo senza atti, né capi d’accusa. Alla sua ribellione, l’autorità chiude sbrigativamente il colloquio con la sua condanna. Kačur s’appella allo stato, alle procedure d’accusa, ma non si rende conto che il quadro istituzionale è una cornice (uno specchio per le allodole) in cui ai notabili è lasciato ampio spazio discrezionale: la patina di modernità è, pertanto, inquinata da un regime di semifeudalità. La violenza propria delle classi superiori è esercitata, in seguito, anche dal sindaco di Blatnidol. Quando il maestro tenta di organizzare una società di lettura in questo paese, il sindaco fa balenare cupi propositi. Il sindaco è anche proprietario terriero, e l’ignoranza è uno strumento di cui egli si serve per rafforzare il proprio predominio sociale. Dopo aver ricordato l’arrivo di un agitatore politico a Blatnidol, fabbro di mestiere, il notabile parla freddamente e senza remore della sua uccisione:

“E sa cosa gli capitò alla fine? Gli capitò una disgrazia, restò lungo disteso sulla strada con la testa fracassata. La cosa accadde durante la festa del patrono. In tempo di sagra le risse sono sempre numerose e i gendarmi non si diedero molto da fare per scoprire chi l’aveva accarezzato così duramente. Che gliene pare?”

La violenza, però, penetra anche nella famiglia e nei rapporti quotidiani. L’ostessa di Bistra, raccontando i casi della moglie del notaio sorpresa in casa con un amante, riferisce come la donna sia, in seguito, picchiata dal marito. Kačur, che, nel soggiorno a Zapolje, idealizza anche il rapporto tra i sessi, si meraviglia di come si possa picchiare una donna. Ma poi, dopo il suo matrimonio con Tončka, ed il suo sprofondare nell’abuso di bevande alcoliche a Blatnidol, anch’egli cede all’esercizio della violenza familiare[23]:

“Strinse i denti  quando riandò a quelle tenebre e rivide la grande camera buia e di fronte a sé la moglie, discinta e a braccia nude, il viso congestionato, gli occhi  scintillanti di odio… e se stesso mentre, con un tremito di cattiveria e di rabbia, le si avventava addosso con i pugni chiusi, sollevati… - Prendi! - E lei urlava con voce stridula, roca: - Su colpisci! Colpisci ancora! Maledetto! - …”

Ma non si ferma alla pura violenza fisica. Il suo disprezzo per la moglie è palpabile, e la donna lo ripaga tradendolo. Così di odio in odio, alla fine la famiglia di Kačur va incontro al disfacimento. L’abbandono della moglie e dei figli maggiori, dopo la morte del figlio minore, non è che l’epilogo di un periodo di violenza che fa da cupo contrasto con la leggerezza della sua anima nel periodo di Zapolje.



[1] Il testo letterario è talmente ricco di spunti e simboli che tocca una massa incredibile di problematiche proprie della cultura occidentale; dal mito al ruolo delle idee, dalla storia sociale (feudalesimo/età borghese) a quella filosofica (significato della vita individuale, ruolo della sofferenza, cristianesimo e socialismo utopico).

[2] Lo stesso nome del maestro, Martin, richiama alla mente il più grande rivoluzionario europeo, Martin Lutero.

[3] La figura del maestro compare in altre opere di Cankar: nell’opera teatrale I severi il maestro Jerman lotta contro la debolezza e la vigliaccheria dell’ambiente didattico. La vicenda teatrale contiene una critica al voltafaccia politico della classe dei maestri che dopo le elezioni del 1907 erano passati in massa nelle file del partito cattolico, vincitore di quella tornata elettorale. L’ultimo discorso di Cankar fu indirizzato ai maestri nel 1918, poco prima della sua morte. Egli stesso si riteneva un maestro non ascoltato in patria, e in questo senso la vicenda di Kačur è ampiamente autobiografica.

[4] Fu anch’egli sognatore, pur cosciente dei limiti dei sogni per interpretare il mondo e la storia. Nel dramma La bella Vida del 1912, un medico, amico di uno dei protagonisti, è molto critico sulla dimensione onirica: “I sogni sono dannosi; l’uomo perde il gusto del pane quotidiano e il senso per le piccole gioie di tutti i giorni. E chi passa tutta la vita a sognare e sospirare non ha mai vissuto … ha girato intorno al mondo come un sonnambulo”. Si veda CANKAR, La bella Vida, Libreria Editrice Udinese, Udine, 1926, p. 41.

[5] Tra i tanti esempi citiamo il mito sumerico di Gilgamesh, quello greco degli argonauti e dell’Odissea: rispondono ad esigenze ideali di rigenerazione attraverso la sofferenza e l’allontanamento dalle proprie case. 

[6] Thomas MANN, Saggi, Mondadori, Milano, 1980, p. 83.

[7] I nomi delle località in cui si svolgono le vicende di Kačur hanno significati simbolici e s’accordano con il flusso narrativo. Il nome della prima località cui è destinato il maestro, Zapolje, accenna alla “campagna profonda”, mentre Blatni-dol, valle fangosa, ricorda il periodo della punizione e “dannazione” di Kačur. La critica ha messo in rilievo l’accordo dei tre momenti e ambienti con le stagioni della vita: giovinezza, maturità, vecchiaia.

[8] Blatnidol secondo Cankar è la realtà senza appello che così definisce più tardi nel dramma  La bella Vida: “Che cos’è la realtà? La realtà sono queste pareti umide e nere; realtà è questa prigione che non ci ha rinchiuso solo il corpo, ma anche il cuore e il cervello; realtà è questa nostra bestiale fame di un po’ di pan bianco e di un bianco raggio di sole … realtà è questa nostra paura  do fronte alla morte e questa viltà di fronte al suicidio”.  CANKAR, La bella Vida, Libreria Editrice Udinese, Udine, 1926, p. 25.

[9] Perché Kačur fallisce così miseramente? La risposta la fornisce lo stesso Cankar in un’altra sua opera, I severi. Secondo il protagonista, il maestro Jerman, i migliori esponenti della nazione slovena erano stati uccisi o erano emigrati nel periodo della controriforma. Erano rimasti solo i più pavidi, e “noi – afferma Jerman – siamo nipoti dei nostri avi”.

[10] Parte III

[11] Può essere interessante raffrontare la visione cankariana del paesaggio con quella di un altro grande poeta del tempo R.M. Rilke. Mentre in Cankar il bel paesaggio ha una funzione liberatoria, come in questo caso, in Rilke così leggiamo: “Siamo soliti dedurre molte cose dalle mani delle creature umane, e tutto dal viso su cui , come su un quadrante, sono visibili le ore che sostengono e pesano la loro anima. Ma il paesaggio è là, privo di mani e non ha viso, oppure è tutto viso, e l’immensa grandezza dei suoi tratti spaventa e schiaccia l’uomo”. R.M. RILKE, Del paesaggio ed altri scritti, Cederna, Milano, 1949, p. 36. Mentre in Cankar  il paesaggio può quindi alimentare l’ottimismo e la speranza, in Rilke esso diviene un ostacolo alla libera effusione dell’anima, che si richiude in se stessa. Fu con questo spirito che, a Duino, l’autore austro boemo compose il ciclo delle Elegie Duinesi.

[12] Il tema della giovinezza ricorrente nell’opera di Cankar. Nelle pagine iniziali de La mia vita egli scrive: “Ogni giovinezza è piena di felicità e di gioia, di sole luminoso e di abbondante sorriso”. Si veda I. CANKAR, La mia vita, Edizioni Paladino, Mantova , 1930, p. 82

[13] La rivoluzione di Cankar non mira al capovolgimento del sistema politico, ma esprime quella tensione verso il futuro inteso come “un mondo essenzialmente migliore”, propria del movimento romantico.

[14] Si veda Marjia PIRIEVEC, Ivan Cankar nella storia e nella letteratura slovena, in Marjia PIRIEVEC, Saggi sulla letteratura slovena dal XVIII al XX secolo, Editoriale Stampa Triestina, Trieste, 1983, p. 54.

[15] “Il canto d’amore e di morte dell’alfiere Cristoforo Rilke” fu pubblicato da Rainer Maria Rilke nel 1899. L’opera esaltava la bellezza della morte in giovane età.

[16] Nel colloquio tra Kačur e Minka quest’ultima, di fronte all’esaltazione idealistica del maestro e al suo amore platonico, lo tratta con distacco dicendogli: “Com’è bambino, signor Kačur! Parla come la Bibbia, in modo così strano e sapiente, ed è talmente bambino, che Dio la perdoni!”

[17] “Tanto tempo prima un ragazzo s’era messo in cammino per il mondo con passo leggero… p. 164

[18] “A passo spedito risalì il burrone e raggiunse la strada maestra, dove incontrò le donne che si recavano con il pranzo verso la fabbrica di laterizi; …”

[19] Uno degli operai che prende le difese di Kačur all’osteria Mantova è un conciatore.

[20] P.46

[21] p. 96.

[22] Si veda Marjia PIRIAVEC, Caratteristiche del racconto “I due padri Macek”nell’ambito dei quadri rurali di Janko Kersnik

[23] Il tema della violenza familiare era suggerito a Cankar dalle esperienze nei quartieri operai di Vienna, in cui egli abitò per un lungo periodo. La miseria e la promiscuità in cui vivevano le famiglie operaie, con il loro corollario di prostituzione e alcoolismo, hanno certo suggerito i drammatici quadri familiari di Blatnidol.

Commento al testo di Ivan Cankar "Martin Kacur" - parte seconda

I temi della politica e dello scontro sociale

 

Martin Kačur non è certo un agitatore politico. Il suo scopo è di offrire un amore immenso a tutti. La sua rivoluzione non ha valenza strettamente sociale, poiché all’inizio egli non si pone in antagonismo diretto con la chiesa ed i notabili, né critica condizioni di lavoro o la suddivisone della ricchezza. Il suo iniziale messaggio non è radicale come quello del fabbro di Blatnidol che proclama la proprietà comune della terra. Egli intende rinnovare la cultura del popolo, affinché la nazione slovena possa sedere alla pari nel consesso dei popoli. Kačur è un uomo dei lumi nato in ritardo, ma, potrebbe essere considerato un cristiano dei primi tempi, osservante della parabola della moneta di Cesare[1]. Nel personaggio e nella sua “predicazione” cogliamo, in ogni modo, accenti del movimento romantico[2], ma anche un influsso del pensiero del Rousseau. Gli uomini sono “naturalmente buoni”[3], ma le strutture sociali ed il loro condizionamento li portano alla degenerazione[4].

Per contrastare la degenerazione è necessario plasmare il popolo. “Il popolo sarà quale lo avrai forgiato”, afferma il protagonista. Egli, in modo illuministico, considera il popolo tenera creta nelle mani di coloro che per volontà e cultura sono deputati a guidarlo: l’élite dei filosofi della Repubblica plutoniana, o coloro che incarnano quello che Rousseau  definisce “volontà generale”, o, ancora, l’eroe nietzschiano, almeno per l’aspetto della volontà?. Il giovane maestro “vuole fare del bene”, ma dispensando dall’alto i suoi doni. Nel colloquio con la giovane ostessa di Bistra si paragona ad un medico, e l’umanità è nemica di quanti vogliono il suo bene. Chi è derelitto risponde al suo benefattore: “Perché nutrirsi di pane bianco quando, finora, s’è vissuti benissimo con il pane nero?” L’immagine del medico richiama una figura elitaria con funzione taumaturgica: l’ignoranza è una malattia che deve essere curata[5]. La concezione elitaria del rinnovamento pensato da Kačur è la sua intima debolezza. All’osteria di Zapolje egli dimostra, però, di non essere in grado di capire ciò che serve effettivamente a quello che egli chiama “il popolo”: popolo che non è un tutto indifferenziato, ma è composto da gruppi con interessi diversi, da operai, contadini e ceti dominanti. La “campagna profonda”, immutabile nei suoi cicli millenari, è la principale nemica dell’idealista. Nella riunione essa esprime il rifiuto del mondo esterno (la lettura dei giornali), ma anche di una moderna cultura agronomica (…ci vuole insegnare come coltivare). Si tratta di un rifiuto totale e senza spiragli, sostenuto dalla gerarchia ecclesiastica che è la prima beneficiaria di tale staticità[6]. Di fronte a questo blocco del rifiuto Kačur appare completamente impreparato e oppone un netto rifiuto ai consigli “politici” del dottor Brinar. Il suo idealismo giovanile non gli permette di padroneggiare gli strumenti di qualsiasi ideologia, non dispone di una strategia di lotta politica, non sa accaparrarsi alleati da utilizzare per la realizzazione del  suo progetto di circolo culturale[7]. All’osteria Mantova sono presenti, infatti, anche alcuni operai, che esprimono apprezzamenti alle parole del maestro: essi incarnano il progresso delle fabbriche, e le loro sole espressioni di plauso fanno di  lui un rivoluzionario[8]. Ma gli operai sono una minoranza sullo sfondo di uno scenario dominato dalla folla dei contadini, ben controllati dal cappellano, astuto manovratore di menti ed assemblee. Il giovane cappellano, al contrario di Kačur, dispone di una cultura del potere con esperienze millenarie, ed è lui a trarre nella trappola l’incauto riformatore. “Che parli – dice – fino in fondo”. Il sacerdote è sicuro della sua influenza tra i contadini, e porta avanti il confronto con decisione, puntando sulla loro rozza autostima e su un’acritica adesione alla pratica formale del culto. Ma chi sono questi contadini? Non sono certo i braccianti e i miseri senza terra che anche a Blatnidol aspirano a migliorare la loro condizione. Sono piccoli e medi proprietari, miseri anch’essi, ma uniti strettamente alle loro terre da vincoli aviti che per essi sono motivi d’orgoglio.

A Blatnidol la posizione del curato appare ancora più netta nell’opposizione al rinnovato progetto del maestro. Le motivazioni addotte sono quelle che, probabilmente, erano proprie della generalità dei preti di campagna:

“Le cose, adesso, stanno così: loro si identificano in me, io mi identifico in loro! … Purché ne rispetti gli usi  e l’ottusità, posso insultarli quanto mi pare! Vivo e mi comporto in tutto e per tutto come loro; non mi curo del mondo e non ne voglio sapere, sono attaccato all’antico e odio il diverso; perciò mi amano e mi rimpiangeranno! … Ed ecco che arriva lei, giovane e forestiero e già per questo inviso a tutti; e adesso si mette in testa persino di sobillarli, di istruirli Dio sa in che cosa, di far arrivare dei giornali che Dio sa cosa stampano …”

A Blatnidol non si può quindi essere giovani e istruiti, in quanto termini sinonimi di sovversivi, e gli stranieri sono odiati semplicemente perché “diversi” e portatori di cambiamenti. Quanti ambienti di campagne reazionarie ci riportano alla mente queste parole: la Vandea francese ai tempi della  Rivoluzione, e l’esercito di contadini che soffoca la Comune di Parigi nel 1871, la reazione clericale nel Meridione italiano dopo il 1861, e il sanfedismo spagnolo, da tormento di Napoleone (1808-1810) a complice negli orrori della guerra civile dal 1936. Ma il curato è in linea con le direttive contro il modernismo, enunciate da Pio IX (il Sillabo, 1864)[9] e difende, soprattutto, assieme al proprio ruolo la propria identità[10].

Ma perché un tale accanimento nel bloccare un’iniziativa come il centro culturale che, dopo il lungo esilio di Blatnidol, nel suo colloquio con l’amico Ferjan a Lazi, Kačur definisce ancora cosa “di poco conto e assolutamente innocua”? Nella sua logica individualista e scarsamente pragmatica, egli non coglie le inevitabili conseguenze della sua azione, che però non sfuggono ai notabili. Dare strumenti di cultura al popolo significa farne una forza rivoluzionaria, in lotta per porre le basi di un futuro con minori disuguaglianze. Per tale motivo un progetto così innocuo come il centro culturale genera malumori ed inquietudine nella gerarchia sociale. Ma c’è un motivo più profondo e sottile legato all’ambito asburgico, un mondo di difficili ed instabili equilibri politici e sociali. La monarchia mirava ad essere il baricentro delle forze ribollenti nell’impero e il clero era uno dei pilastri più saldi della corona. Tutto poteva mutare tranne l’equilibrio generale dello stato, cioè nulla poteva cambiare[11]. Questa situazione condannava la società imperiale a puntellare la staticità istituzionale. Lo stesso Francesco Giuseppe I è definito dal Magris nel Mito asburgico “il maestro della statica politica”[12].

Pertanto, se il popolo acquista cultura, conquista una maggior percezione del suo essere nazione e somma di cittadini con doveri, ma anche diritti[13]. Questo può incrinare e portare alla rovina la costruzione politica imperiale studiata con tanta arte. Un contesto in cui il popolo è alla base dell’evoluzione nazionale è difficilmente manipolabile dai notabili: per questo essi preferiscono che i ragazzi studino il tedesco, la lingua del potere, per servire nel modo migliore il sovrano e la loro statica tranquillità. Un ingenuo riformista come Kačur non può godere delle simpatie della gerarchia consolidata in quanto è imprevedibile e incomprensibile nel suo inquietante agire disinteressato. Nel colloquio con Minka a Bistra, egli rileva che:

“Nella nostra società è addirittura proibito non ricavare un utile da ogni cosa. Ma io oso affermare che ove c’è utile, lì non c’è onestà”.

Quale messaggio dirompente in una società in cui a ciascuno deve avere il proprio tornaconto per garantire l’equilibrio generale! Quale messaggio dirompente ancor oggi, in cui l’utile è diventato un feticcio universalmente accettato. O forse dobbiamo considerare questa osservazione come una  critica alle dottrine dell’economia neoclassica mengeriana, che  Cankar dovette conoscere, sia pur marginalmente, a Vienna[14].

Ma gli equilibrismi sociali non possono durare per sempre. Infatti, alle spalle della titanica ma ineguale lotta tra il maestro e le forze della conservazione si coglie un altro sotterraneo conflitto: quello tra il clero, intenzionato ad egemonizzare la rinascita slovena facendone un movimento con scarsi connotati nazionali, e l’emergente borghesia commerciale ed industriale, decisa a creare un movimento nazionale autonomo e maturo. La figura del sindaco zapoliano, incerto sul da farsi, ansioso di ricevere certezze da Kačur, esprime con ironia questo momento storico di grandi incertezze. Anche il maestro, pur riconoscendo il fallimento all’osteria Mantova, riflette che non tutto è stato inutile: “Può darsi che la lotta continui e che ne nascano delle autentiche contraddizioni e le contraddizioni sono sempre fertili”[15]. Gli insuccessi individuali del dottor Brinar, del curato di Blatnidol, dello stesso Kačur sono, così, dei granelli di sabbia nel grande meccanismo della conservazione. Alla fine il sistema politico e sociale deve tenerne conto, pena il collasso della struttura. E in questo il giovane maestro si dimostra miglior profeta degli scettici delusi. Il risvolto etico delle cose, nelle grandi trasformazioni prende un breve ed incerto potere. Ma dopo il passaggio etico tutto ripiomba nel conformismo: però molto è cambiato, e siamo in presenza di una nuova fase etica che sarà anch’essa superata in successive fasi escatologiche.

La società di Lazi è il simbolo del cambiamento politico e sociale avvenuto: l’avanzata di un ceto laico e liberale ridefinisce il ruolo del clero limitandolo alla sola cura delle anime. La classe emergente che domina la cittadina è la media borghesia imprenditoriale e la piccola borghesia impiegatizia. La mentalità degli abitanti appare libera e moderna, e l’istruzione, con marcato carattere laico, ha il posto adeguato, a suo tempo sognato dal protagonista[16]. Ma presto Kačur s’accorge che l’aspetto scintillante di Lazi è una facciata perbenista dietro cui si nasconde una società di arrivisti e di ipocriti, di gente che non ha sofferto per raggiungere la sua posizione; Kačur ha contribuito a creare la base per il cambiamento, ma così facendo ha “ … fornito alibi e pretesti ai ciarlatani che si mascherano da veri idealisti per arraffare più facilmente soldi e onori”. Questa società, così impregnata di positive certezze, così gaudente, frivola e fiera delle proprie conquiste, non è, però, esente da tarli[17]. La modernità e il progresso con il loro seguito di fabbriche e ferrovie corrodono la struttura politica imperiale fino alle fondamenta, alterano i rapporti consolidati tra le nazionalità, alimentandone i contrasti. Questo processo, però, è scarsamente percepito: ognuno pensa che l’equilibrismo asburgico sarà in grado di temperare e soddisfare gli interessi di tutti, tutelando le singole nicchie, anche se il diffuso degrado morale condanna in blocco la società, e fa presagire la catastrofe della prima guerra mondiale[18].

 

 

Il tema delle donne

Uno dei temi più pervasivi del romanzo di Cankar è quello del rapporto tra il protagonista e il sesso femminile. In questo confronto è esaltata la tensione tra sensuale e spirituale, tra infinito metafisico e realtà terrena, il contrasto tra l’amor sacro e l’amor profano.

L’ostessa di Bistra gioca con il giovane maestro cercando di scoprire le sue debolezze. È audace e sguaiata, tanto che suscita nell’uomo il ricordo di cortigiane lubianesi. La donna, dominatrice della casa e limitata ad essa, è, però, un’attenta esploratrice del mondo attraverso i viaggiatori che capitano nella cittadina. I giovani che capitano a Zapolje cadono nella trama della moglie del notaio o dell’ostessa di Bistra e di sua figlia: le guida il desiderio di rompere la quotidianità, ma senza fuggire dalla mondanità. La giovane Minka ha un comportamento apparentemente diverso rispetto alla madre, ma in realtà anch’essa sorride dell’idealismo del giovane. La bellezza della fanciulla esercita una tale attrazione spirituale su Kačur, che la passione amorosa gli annebbia i sensi ed egli vede solo ciò che vuol vedere. In realtà il giovane maestro non è innamorato della Minka che si trova davanti, ma dell’immagine amorosa che egli ha creato[19]. Lui stesso lo dice: “L’uomo è debole; vuole volare, ma deve avere un punto di appoggio sulla terra”. La donna è il punto d’appoggio, che dovrebbe impedire all’uomo di perdersi tra le sue fantasie, di fuggire (da debole qual’è) in un mondo empireo senza ritorno[20]. L’uomo, grazie alla passione terrena ritorna sulla terra fortificato dalla contemplazione delle idee e sostenuto nella sua volontà di realizzazione dall’amore femminile[21]. Per quanto possa apparire disinteressato, il giovane Kačur in questa concezione appare egoista e scarsamente attento ai sentimenti della fanciulla. Quest’ultima è interessata a vivere la propria giovinezza senza alti voli, ma con la massima naturalezza dell’età. Se Kačur vuole addossarle la responsabilità d’essere una musa ispiratrice, Minka nega con il suo sorriso sprezzante questo ruolo, rifiutando anche la drammaticità della vita che e

egli le propone di condividere nell’ “immensa passione di rendersi utile agli altri”. La fanciulla lo rifiuta perché egli non è ancora un essere “sociale”, cioè capace di sopravvivere nel mondo, accettando i necessari compromessi.

Nell’ultimo incontro con Minka, Kačur si rende conto che la ragazza ha una propria autonomia e una propria individualità, ben diversa da come egli l’ha sognata. Ella è parte del suo sogno che s’infrange nella dura realtà del confronto. Il fallimento del suo progetto sociale porta con sé il fallimento amoroso, così che Martin ha, per la prima volta, il dubbio di essere egli stesso il diverso, l’«ammalato»[1].

A Blatnidol il volto femminile di Tončka si presenta con quello della sensualità, che lei stessa ostenta senza ritegno, come sottolinea il curato con ruvidità. Grazie a lei, però, Kačur inizia la lunga ma tormentata strada che lo porta a perdere ogni connotato idealistico, per diventare un individuo sociale, anche se spiritualmente degradato. Non siamo più in presenza della donna esemplificazione dell’idea di femminilità “perfetta” e statica, ma della donna che svolge la funzione d’introdurre l’uomo nelle miserie del mondo terreno. 

“Quel che lo stupiva di più  era l’impressione che nonostante la camicetta rossa non rassomigliasse in alcun modo a Minka. Il suo viso non era bianco – il bianco incandescente del ferro in fusione – i suoi occhi erano neri e non scintillavano, le sue labbra erano senza sorriso”.

Tončka è terrena nella sua immagine e nelle sue espressioni. Sui suoi pensieri non è possibile costruire una speranza di rigenerazione:

“I suoi pensieri sono come la cenere di tabacco su un tavolo: un soffio e non ne resta più niente! Guarda quel pezzo di seta, ed ecco: non esiste più né passato né futuro”[2].

 In lei non c’è il sogno evanescente ed irridente di Minka, sempre presente, in ogni modo, nella dimensione onirica di Kačur, ma il saldo legame con la terra e la sua fertilità[3]. Essa rappresenta la potenza riproduttiva biologica, diametralmente antagonista al ribellismo idealista del maestro. Non possiamo, tuttavia, considerare questo personaggio femminile semplicemente ottuso e votato alla materialità. In fondo, Dio opera attraverso vie sconosciute agli uomini[4]: se il destino di Kačur è quello di fallire, egli, però, grazie a Tončka lascia dietro di sé il figlio Tone, che continuerà la sua lotta. In questa prospettiva la donna perduta di Blatnidol assume dignità e valore, e un’aspra umanità nelle sue contraddizioni e desideri spasmodici.

Tončka contrasta l’idealità con le armi della sensualità e con l’imperativo della sopravvivenza biologica della famiglia: essa porta con sé le responsabilità familiari, il rispetto delle convenzioni sociali, ma permette il superamento della paura della solitudine e dell’intima debolezza dopo il fallimento di Zapolje. Dal punto di vista freudiano essa salva la vita di Kačur che in caso contrario si sarebbe auto distrutto con i suoi sogni[5].

Tončka paga l’appiattimento morale del marito con la violenza familiare ed il disprezzo di lui, che lei contraccambia con il tradimento. Sarà lei ad inserirsi perfettamente a Lazi, in un ambiente in cui il marito non può, e non vuole sentirsi a suo agio. Lei è maestra nelle esplorazioni terrene, e nella cittadina trova un mondo nuovo e di giovani: la sua disponibilità, che Kačur taccia di meretricio, risponde alla sua spasmodica ricerca di novità e di appagamento personale, che il marito è incapace di soddisfare dopo aver lasciato l’angusto ma comodo guscio di Blatnidol. La freddezza nei confronti della commovente morte del figlio minore Lojze[6], contribuisce a rimuovere un periodo buio della vita. Perduto il segno palpabile dell’oscurità di Blatnidol, il futuro sarà luminoso. Per la donna è quasi un sacrificio rituale, per propiziare la conquista di una migliore situazione sociale. Per l’uomo questo atteggiamento è la negazione della maternità, un aspetto sempre considerato importante nell’opera di Cankar. La morte del ragazzo infligge il colpo finale al rapporto familiare, che ormai non è più necessario né per l’uno né per l’altra. La crisi del matrimonio tra il vecchio idealista e l’insoddisfatta ragazza di campagna è, in ogni modo, un aspetto del basso livello morale della società borghese. Dopo aver rivendicato nel crollo del matrimonio la propria autonomia e libertà d’azione, Tončka si lascia, però, imbrigliare nei nuovi consumi sociali della moda e della vita mondana. La donna libera e autonoma è catturata dalla trappola economica che la nuova società apparecchia al sesso femminile.

Anche un personaggio minore come Matilde rivendica la propria indipendenza dai canoni sociali della subordinazione. Fa spasimare il maestro Ferjan e altri senza remore di alcun genere, e tratta in modo disinvolto Kačur al suo arrivo a Lazi, dimostrando autonomia e spregiudicatezza.

Dall’analisi del testo emerge, pertanto, una condizione femminile con un certo grado di rilevanza sociale, non in competizione con il gruppo maschile ma capace di stare alla pari con esso. Persa, pertanto, la dimensione intimistica e familiare, e, soprattutto, la dimensione materna e morale, le figure femminili appaiono estremamente libere e disincantate. Non si ritrova nel testo una condanna della loro spregiudicatezza, ma un semplice riconoscimento dell’autonomia sociale della donna nel tempo della modernità[7].



[1] L’uomo porta in sé una tragica malattia, la vita! Così ne La casa di Maria Ausiliatrice, le bambine malate rovesciano la loro malattia all’esterno per costruirsi una prospettiva di normalità. In Martin Kačur, il maestro vede gli altri ammalati d’ignoranza, corrosi dalle difficoltà della vita. Viceversa gli altri lo considerano ammalato d’idealismo, soffocato dai sogni, debole per troppo amore. Tra due specchi che si osservano dov’è la prospettiva reale?

[2] (p.107) Esiste in altre parole un eterno presente. Nietsche, nelle prime righe della sua opera Sull’utilità e il danno della storia, così scrive: “Osserva il gregge che pascola dinnazi a te; non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dell’attimo, e perciò né triste né annoiato”. Si veda Friedrich NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia, Newton Compton Editori, Roma, 1978, p. 36. Per Kačur, quindi, Tončka ha qualcosa d’animalesco, d’inumano, così legata all’attimo ed al frivolo; da qui il suo disprezzo nei confronti di lei, considerata il “piuolo” della sua azione ideale.

[3] La presenza di due tipi femminili in opposizione si ritrova nel dramma La bella Vida del 1912. In quest’opera la bella Vida rappresenta la tensione ideale, mentre il personaggio opposto, Milena, personifica la realtà positiva e materiale. CANKAR, La bella Vida, cit., p. 11.

[4] Dopo aver espresso la volontà di sposare Tončka, Kačur le dice: “Vedi, forse è accaduto troppo presto… prima del tempo… troppo casuale, forse non era giusto… ma sia fatta la volontà divina: ormai siamo uniti per sempre!…” Il protagonista si piega, così, ai voleri della divina provvidenza accettando un’unione che poco tempo prima avrebbe evitato.

[5] Secondo Freud tutti gli esseri viventi cercano di tornare al nulla prenatale e quindi assecondano i loro istinti di autodistruzione e di morte. Solo il sesso, istinto vitale per eccellenza, contrasta le spinte regressive. L’aspirazione di un idealista come Kačur è quella di donare la propria vita, e quindi di auto distruggersi. Ferjan, opportunista ma conoscitore del mondo, gli ricorda che “ … questa ragazza (Tončka) è pur sempre meglio di un vero amore, quello che marcia verso il sole! Il vero amore ti avrebbe legato mani e piedi, sarebbe stato un inferno e ne saresti crepato!” La sensualità di Tončka salva dunque il marito dalla morte fisica, ma non da quella spirituale. D’altra parte, quella salvezza non è in suo potere. Accenni alla volontà di auto distruzione propria dell’uomo, si trovano nel dramma La bella Vida: in questo dramma un personaggio, riflettendo sulla frenesia della vita umana così s’esprime: “Tutto questo desiderare che affatica il nostro cuore, o amico, non è che nostalgia dell’eternità …”. CANKAR, La bella Vida, cit., p. 14.  

[6] Gli aspetti degradati della maternità nella società del tramonto asburgico sono già presenti nel romanzo La casa di Maria Ausiliatrice del 1904. Il crollo dei valori sociali, spesso delineato dal Cankar, contamina anche il sentimento più sacro della donna, cioè quello materno. Nei due romanzi questa tematica è trattata con apparente distacco, con il risultato di mettere ancora più in risalto la mostruosità del fenomeno.

[7] La nuova posizione della donna nella società dell’Ottocento è riconoscibile nel risalto a lei attribuito nella pittura della seconda metà del secolo. A partire dalla “Colazione sull’erba” di Manet alle figure femminili nei dipinti di Renoir (ad esempio Le Moulin de la Galette) e di Degas (la Cantante col guanto), per finire con le folgoranti immagini neobizantine di Klimmt. I nuovi mezzi di comunicazione e la possibilità di viaggiare con maggiori comodità, liberarono le donne da vincoli secolari. Tra i viaggiatori inglesi della seconda metà dell’Ottocento, ad esempio, sono sempre più numerose le “donne non protette”, così dette perché viaggiano senza accompagnatori maschili. Si veda John PEMBLE, La passione del sud, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 92-93. Anche nei viaggi organizzati da Thomas Cook (1808-1892), il primo operatore turistico internazionale nella storia, le donne sole erano presenti in gran numero. Su Thomas Cook si veda L’epopea dei grandi viaggi, Touring Club Italiano, Milano 1994, pp.156-159. Infine l’avvento dei primi movimenti femministi alla fine del XIX secolo diede una decisa spinta all’inizio dell’emancipazione femminile. Su queste tematiche si veda Georges DUBY e Michelle PERROT (a cura), Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari, 1995, in particolare Anne-Marie KÄPPELI, Scenari del femminismo, pp. 484 e sgg.



[1] “Date a Cesare quello che appartiene a Cesare, e date a Dio quello che appartiene a Dio”. In conformità a questa parabola i cristiani dei primi tempi non si consideravano in conflitto con l’autorità imperiale, perché pensavano che ogni potere terreno proviene da Dio. Il carattere cristiano del pensiero di Cankar è stato fatto notare da molti autori. Alojz Rebula, nel saggio introduttivo ad un’edizione di Immagini dal sogno, evidenzia il carattere di Cankar “non secondo Marx, ma secondo Cristo”. Nel racconto Epilogo, che chiude Immagini dal sogno, tale carattere è particolarmente marcato. Si veda I. CANKAR, Immagini dal sogno, Marietti, Casale Monferrato, 1983, p. VIII e p. 134.

[2] Ricordiamo il ruolo importante che il movimento romantico ebbe nella rinascita culturale e nazionale slovena del XIX secolo. Su tale problematica si veda Marija PIRIAVEC, Dalla letteratura per “ pacifici agricoltori” alla letteratura d’élite: aspetti e particolarità del romanticismo sloveno, in Marija PIRIAVEC, Saggi sulla letteratura slovena, cit.

[3] Nel suo primo colloquio con il medico Brinar, Kačur sostiene che “non c’è uomo che non sia buono e generoso”. Nel dramma La bella Vida, uno dei personaggi riflette così: “Come sono puri e buoni gli uomini quando li guardi con occhio puro e buono! … Ma, stendi la mano, e la mano è vuota! Dì al tuo vicino una parola – egli vi sputa sopra CANKAR, La bella Vida, Libreria Editrice Udinese, Udine, 1926, p. 26.

[4] Dopo gli incontri con il sindaco ed il parroco di Zapolje, Kačur riflette: “Sono individui che l’eterna fatica d’ogni giorno, sempre uguale a se stessa e perennemente noiosa, ha reso stanchi, aridi e tetri. Ma in fondo al loro cuore sono uomini come tutti gli altri, generosi ed onesti”.

[5] La miseria, l’ignoranza, sono malattie come la tisi, la violenza sociale, la vita. L’idealista è il medico adatto per curare i mali sociali, o è più adatto il “leccapiedi” Ferjan che lascia cadere delle “pillole” nel bicchiere del vicino mentre entrambi si ubriacano? Secondo la tesi del curato di Blatnidol, chi s'abbandona all'esaltazione idealistica tradisce il popolo, poiché se ne distacca, mentre chi s' “adegua” ai ceti più umili può meglio aiutarli. In questo contrasto notiamo le idee politiche di Cankar avverse al conformismo e alla pretesa di alcuni gruppi sociali, in particolare la borghesia, di rappresentare le istanze della nazione.

[6] “Io do loro la messa e loro danno a me le decime” dice il parroco di Blatnidol. La “decima” era un’esazione ecclesiastica che consolidava il prestigio ed il potere economico ecclesiastico.

[7] Anche questo è un tratto autobiografico che Cankar conferisce a Kačur. Egli fu più incline alla ribellione contro tutto e tutti, che alla lotta organizzata. Questo è espresso chiaramente nell’espressione rivolta da Kačur a Ferjan: “ … che cosa oggi è proibito essere? – Socialista! – Giusto!Dio sa cosa vuol dire, ma tuo malgrado, Ferjan, sono socialista!”. Il tema della rivolta disperata Anche nell’opera teatrale Per il bene del popolo, il protagonista Škuča si ribella ai grandi notabili, ma la ribellione da lui suscitata risulta velleitaria ed anarcoide. Secondo Cirillo Cuttin, Cankar volle distruggere le “antiche tavole” e gli “antichi dei”, non avendo, tuttavia, nulla da sostituire ad essi, se non l’aspirazione ad un mondo migliore, non meglio definito. Si veda Cirillo CUTTIN, nota introduttiva alla traduzione del Martin Kačur, Rizzoli, Milano, 1964, p. 8. Nel 1918, di fronte ai precisi programmi annessionisti italiani, lo stesso Cankar non fece altro che appellarsi al vago concetto dell’autodeterminazione dei popoli, dimostrando scarso realismo politico. Si veda Marjia PIRIEVEC, Il ruolo della cultura e la sorte della nazione slovena nei discorsi di I. Cankar a Trieste, in Marjia PIRIEVEC, Saggi sulla letteratura slovena, cit., pp. 66-67.

[8] Era sufficiente frequentare gli operai per essere considerato un sovversivo. L’affittacamere, discorrendo del precedente maestro si esprime con molta semplicità, ma chiarezza al proposito: “Fraternizzava con gli operai e non andava alla messa. Era una brava persona, solo non sapeva comportarsi come si deve”. P.46

[9] Le direttive ecclesiastiche contro la modernità furono solo in parte mitigate da Leone XIII con la Rerum Novarum (1891), ma riprese con decisione da Pio X (Pascendi) nel 1907. Dal 1891 la gerarchia ecclesiastica fu però capace di piegare ai propri fini strumenti come giornali o associazioni cooperative. Il clero sloveno era, poi, saldamente in mano ai conservatori, come Aleš Ušeničnik (1868-1952), leader della componente cattolica conservatrice e teologo all’università di Lubiana. Un altro leader cattolico, Anton Mahnic (1850-1920), vescovo di Veglia e poi di Lubiana, rifiutò costantemente ogni innovazione nella cultura slovena della seconda metà del XIX secolo. L’orientamento del clero, ostile alle grandi innovazioni culturali era, in ogni modo, condiviso da gran parte della classe dirigente liberale. Contro queste programma culturale che si richiamava al Kopitar, si schierarono decisamente i giovani della “moderna”, ed in particolare Cankar. Quest’ultimo ebbe uno scontro particolarmente aspro con la gerarchia religiosa a proposito della raccolta poetica Erotika. Il Mahnič, allora vescovo di Lubiana, fece bruciare tutti i volumi dell’opera che poté rintracciare.

[10] Il curato dice a Kačur con un pizzico d’invidia: “Lei è giovane, Ha il mondo davanti a sé! Ma che sarebbe di un vecchio come me? Se Blatnidol mi cambiasse sotto gli occhi, da un giorno all’altro, che ne sarebbe di me in un luogo che mi fosse diventato estraneo! Non avrei più patria né focolare!”

[11] Il sindaco di Zapolje ben esprime tale concetto: “Però… non bisogna eccedere in niente! Gran virtù la parsimonia! Ma ecceda ed ecco: è avarizia! Un peccato capitale!”

[12] Claudio MAGRIS, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi, 1963, pp. 89-90.

[13] Nella concezione di Cankar, cultura e libertà del popolo sono strettamente collegate. In una conferenza tenuta a Trieste nel 1907 così si espresse: “La cultura è la somma delle libertà. Ogni palmo di libertà conquistato dal popolo è un passo avanti nella cultura”. Si veda PIRIEVEC, Il ruolo della cultura, cit., p. 63. In questa concezione s’inserisce anche la considerazione, propria del Cankar che l’intellettuale è al servizio del popolo: idea trasfusa chiaramente nella figura del maestro Martin.

[14] Carl Menger (1840-1921) fu uno dei più importanti economisti europei tra Ottocento e Novecento, esponente della classe liberale e positiva dell’ultimo periodo dell’impero asburgico. Il suo più importante contributo alla scienza economica fu la precisa formulazione del principio d’utilità marginale, che costituisce il fondamento del pensiero economico neoclassico, fondamentalmente individualistico e razionalistico. L’economia neoclassica di Menger privilegia i rapporti tra singoli operatori nell’ambito del rapporto domanda/offerta; trascura così l’esistenza dei grandi aggregati (produttori, lavoratori) nel settore della produzione, riducendo l’interesse per le problematiche sociali.

[15] Nelle opere di Cankar è ripreso più volte il concetto che nessun’azione umana va perduta nella lunga storia dei popoli. Nel racconto Un castagno straordinario della raccolta Immagini dal sogno del 1917, si narra la fantastica storia di un castagno che dona giovinezza e felicità, che trae dai morti sepolti tra le sue radici. CANKAR, Immagini dal sogno, cit., pp. 59-61. In Epilogo (nella stessa raccolta) la Morte dialoga con il poeta e gli ricorda che “nessuna goccia di sangue è stata versata invano”. CANKAR, Immagini dal sogno, p. 133.   P. 73

[16] Dal 1805, sotto il regno di Francesco I alla chiesa è affidata la sorveglianza delle istituzioni scolastiche in tutti i loro aspetti. Solo dopo il 1867 l’istruzione d’ogni ordine e grado torna sotto il controllo dello stato. Rimase titolo di merito per gli insegnati, in ogni modo, l’autorizzazione ad impartire l’insegnamento religioso. Per alcune notizie sulla legislazione scolastica in generale, e per l’ambito Goriziano in particolare, si vedano: Diana DE ROSA, Marita Teresa e l’educazione del popolo, in Il segno degli Asburgo, a cura di Fulvio SALIMBENI e Raffaella SGUBIN, Musei Provinciali di Gorizia, Gorizia, 2001, p. 79; Chiara Lesizza BUDIN, L’istruzione popolare a Gorizia dal 1875 al 1890 attraverso gli atti del Consiglio Scolastico Urbano, in Autori Vari, Ottocento Goriziano, Istituto di Storia Sociale e Religiosa, 1991, pp.65-98.

[17] Si coglie, nella condanna della società di Lazi, la condanna alla classe borghese slovena, che pretendeva di incarnare le esigenze e la volontà di tutto il popolo sloveno. Cankar attaccò questa concezione nel corso delle conferenze tenute a Trieste nel 1907, in occasione delle prime elezioni tenute a suffragio universale. Egli si presentava come candidato nelle file del partito socialdemocratico sloveno, accusato di tradire la nazione poiché presentava liste unitarie con i socialdemocratici italiani. Si veda PIRIEVEC, Il ruolo della cultura e la sorte della nazione slovena nei discorsi di I. Cankar a Trieste, cit., p. 62.

[18] Quella di Lazi è la società del mito imperiale, quale si configura nella seconda metà del XIX secolo. In gran parte dei paesi europei il consolidamento della struttura statale, comporta l’elaborazione di un’ideologia imperiale con i suoi miti (il sovrano), le sue cerimonie, i suoi simboli (ad esempio la bandiera nazionale). Tale elaborazione favorisce l’identificazione popolare nella persona del sovrano: la regina Vittoria e Francesco Giuseppe sono gli esempi più riusciti del processo di mitizzazione ed identificazione popolare. All’interno della struttura politica imperiale la borghesia trova ampie possibilità di sviluppo, grazie alla compressione delle aspirazioni popolari. L’inquadramento del popolo avviene o attraverso l’ordine interno garantito dalla forza o con l’adesione spontanea ai miti imperiali. In tal modo gli ideali romantici di fratellanza sono svuotati, ed è contrastato efficacemente lo stesso internazionalismo socialista. I contrasti tra gli stati imperiali preparano, però, lo scoppio della prima guerra mondiale. Si veda E. J. HOBSBAWM, L’età degli imperi. 1875-1914, Laterza, Bari, 1987.

[19] Quando, nel corso del colloquio con il dottor Brinar, quest’ultimo lo mette nuovamente in guardia nei confronti della ragazza di Bistra, Kačur ribadisce il concetto d’essere assolutamente proprietario della sua creazione amorosa: “Io non direi mai a un amico, o a una persona per bene, che la sua fidanzata non l’ama; se lui l’ama, lei è sacra e io ho il dovere di dire e pensare di lei solo quel che ne dice lui stesso…”

[20] La donna evita così all’uomo, secondo una bellissima espressione di Thomas Mann, di “smarrirsi troppo in alto verso tragiche vette”. Se, durante una scalata, l’alpinista è impossibilitato ad avanzare e a retrocedere, questo è il momento del suo tragico smarrimento. In Thomas MANN, Saggi, cit., p. 71.

[21] Nella letteratura slovena, lo stretto nesso tra passione per la donna ed amore per la patria è messo in rilievo nelle composizioni poetiche di France Prešeren.

I Ritter e l'agricoltura

La nostra Storia è il più grande dono che ci fecero i Padri.

La Poesia della nostra vita è il più grande dono che possiamo lasciare ai nostri figli.

Storia dell'agricoltura in provincia di Gorizia

La famiglia Ritter e l’investimento in agricoltura nel XIX secolo.

(Contraddizioni goriziane e innovazioni agrarie).

di Luchitta Alberto

 

Il passaggio all’investimento nel settore fondiario rappresenta tradizionalmente una fase quasi obbligata per le classi mercantili in periodo medioevale e moderno. Il possesso terriero è, a volte, passo necessario verso la nobilitazione e il consolidamento dello status sociale; in un’ottica razionale e borghese, però, offre garanzie nei confronti dell’aleatorietà del commercio e assicurazione contro le perdite di capitale. L’acquisto di terreni agricoli è anche per la famiglia Ritter parte non secondaria nella diversificazione del rischio nella loro veste di imprenditori.

Il primo investimento nel settore terriero effettuato da Cristoforo Ritter risale al 1830. Egli acquista dal conte Coronini la Signoria di S. Daniele del Carso[1]. La Signoria è acquistata “con tutti i diritti reali e signorili di caccia, pesca, laudeminiali, giurisdizionali ed altri come venne amministrata[2]. Cristoforo Ritter, in questa fase, intende garantire un supporto concreto alla sua posizione sociale nell’ambito dell’aristocratica Gorizia, dove, nel 1819, ha trasferito i suoi interessi mercantili. L’acquisto segue di poco la nomina a barone di Zahony e Salomon, in Ungheria, avvenuta nel 1829. Non abbiamo ulteriori notizie in merito alla gestione della signoria di S. Daniele da parte di Cristoforo. Dopo la sua morte, la proprietà passa al primogenito Enrico Guglielmo, secondo il testamento del 27 giugno 1837[3]. Le informazioni in merito alla gestione della proprietà di S. Daniele continuano ad essere avare, a parte un documento relativo ad una causa promossa da Enrico Guglielmo, per ottenere il riconoscimento di proprietà di alcuni edifici da parte del venditore Coronini[4]. Nel 1854, infine, Enrico Guglielmo Ritter vende la signoria a Giuseppe Fabiani[5].

Più articolato e positivo l’atteggiamento nei confronti dell’investimento terriero da parte di Ettore e di Guglielmo Ritter. Nel 1849 Ettore Ritter è presidente dell’Accademia Agraria di Gorizia, illustre consesso fondato nel secolo precedente. L’Accademia goriziana, in realtà aveva condotto attività discontinua, e forse non incisiva, nella prima metà del secolo XIX, ma le cose cambiano nella seconda metà dell’Ottocento sotto la spinta di nuove conoscenze agronomiche e realizzazioni tecniche che giungono a maturazione in quel torno di tempo. Da ricordare che, se nel 1851 Ettore Ritter assume la presidenza della neo costituita Camera di Commercio e Industria goriziana, il fratello Guglielmo rimane attivo presso l’Accademia Agraria, come vicepresidente, dal 1871 fino alla morte, avvenuta nel 1885. Presso l’associazione, Guglielmo svolge una cospicua attività per introdurre nuovi metodi colturali e per contrastare la decadenza della bachicoltura goriziana, fonte di reddito per il ceto colonico, ma insidiata da disastrosi parassiti. Le malattie e lo sfavorevole andamento climatico non sono, però, i soli nemici dell’agricoltura goriziana. Le nuove tecniche e le moderne macchine agricole sono avversari altrettanto temibili dei parassiti.

 

Cenni sullo sviluppo delle conoscenze e delle tecniche in agricoltura tra Settecento e Ottocento.

 

L’Ottocento è, nell’immaginario storico, il secolo della Rivoluzione Industriale, del treno, del motore a scoppio e dell’elettricità. Vero è che gli uomini di quel tempo sono in grado di costruire la prima grande sovrastruttura tecnica globale (ferrovie, collegamenti con navi a vapore, nuove tecnologie dell’immagine e della rappresentazione[6]). I semi del progresso scientifico settecentesco sono alla base di nuove tecnologie valorizzate dal capitale borghese in diverse fasi lungo tutto il secolo. Anche la scienza agronomica, però, allunga il passo nel “secolo del progresso”. Dopo un periodo di lunga gestazione, s’acquisiscono nella cultura agronomica corrente i principi della fisiologia delle piante e delle loro necessità nutrizionali. Autori come Arthur Young e Albrecht Thaer ampliano i margini di conoscenza grazie alla loro opera di divulgatori[7]. Determinante è l’opera di Justus Liebig, che nel suo “La chimica applicata all’agricoltura ed alla fisiologia”, getta le basi di un corretto  approccio, scientificamente impostato, ai meccanismi nutrizionali delle piante[8].

Esiste, però, anche un’azione di sinergia con le nuove tecnologie industriali. Nella seconda metà del XVIII secolo in Inghilterra l’industria siderurgica produce acciai e componenti in ferro migliori e più economici rispetto al passato. Così nel 1771 è costruito in Inghilterra il primo vomere completamente in acciaio. Nello stesso anno, nell’Essex, John Brand realizza il primo aratro completamente in ferro.

Il rinnovamento dei materiali permette il perfezionamento di macchine da impiegare nelle operazioni agricole.

La storia delle macchine in agricoltura nasce con gli sforzi di meccanizzare la semina: ci si rende conto, infatti, dell’inefficienza della semina a spaglio che comporta un’ineguale distribuzione della semente. Già nel 1670 un pioniere italiano, Giuseppe de Locatelli, propone una macchina seminatrice utilizzata per la prima volta in Carinzia, ma sperimentata anche in Spagna. Nel 1701 nasce la seminatrice dell’inglese Jethro Tull. Nuove macchine e miglioramenti di questi prototipi si susseguono senza sosta fino alla seconda metà dell’Ottocento.

Nel 1786 Andrew Meikle mette a punto l’efficiente trebbiatrice a rulli, che riduce il costo di un’operazione tradizionalmente imperfetta e costosa come la trebbiatura. Nel 1826 Patrick Bell brevetta la prima efficiente mietitrice meccanica, seguito da Cyrus Hall McCormik nel 1831: grande successo di mercato arride a queste macchine nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alla struttura estensiva dell’agricoltura americana.

 

Fig. 1

 

Modello di erpice pesante.

Tratto da Landwirtschaft und landwirtschaftliche Gewerbe und Industrien, Berlino 1897.

 

 

Fig. 2

 

 

Schema di aratura meccanica tramite locomobile (caldaia a vapore mobile).

Tratto da Landwirtschaft und landwirtschaftliche Gewerbe und Industrien, Berlino 1897.

 

Il perfezionamento e la diffusione delle macchine agricole comporta nelle agricolture più estensive e votate all’esportazione un enorme impatto in termini di diminuzione di costi e di ore lavorate. Se nel 1830 la produzione di 1800 litri di frumento esige 144 ore lavorative, nel 1896, negli Stati Uniti, si scende a 22 ore lavorative. Tra il 1830 e il 1896, pertanto, è raggiunto un risparmio di tempo pari all’85,6 per cento, e di costo dell’ 81,4 per cento[9].

La meccanizzazione dell’agricoltura americana permette l’esportazione di grandi quantità di prodotti agricoli, ed in particolare grano, verso la congestionata Europa. L’agricoltura europea legata a spazi ridotti, o ad antiquati metodi di produzione, non è ancora in grado di utilizzare al meglio le nuove macchine[10]. A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo l’afflusso di prodotti agricoli a buon prezzo dagli Stati Uniti mette in ginocchio la struttura agricola europea[11]. Per aree come il Goriziano, già strutturalmente marginali dal punto di vista produttivo, il fenomeno è devastante.

La situazione dell’agricoltura nel Goriziano e la posizione dei Ritter.

Alla metà dell’Ottocento il Goriziano era, pertanto, tra le aree in cui dominavano tecniche antiquate e rapporti contrattuali contrari all’aumento della produttività. Vari autori, come il Bianco[12], hanno già posto l’accento sulla deleteria influenza dei rapporti di colonato (stipulati tra famiglie contadine e proprietari) sulla produttività dell’agricoltura comitale. Questo tipo di contratto impediva, sostanzialmente, investimenti e processi innovativi nei lavori delle campagne. In un articolo pubblicato nel 1850 sulla “Cerere”, organo di stampa della Società Agraria goriziana, si lamenta la scarsa considerazione in cui è tenuta l’opera d’amministrazione dei grandi e piccoli possessi agricoli dell’agro provinciale. Gran parte dei proprietari preferiscono seguire le libere professioni e gli impieghi statali, abbandonando la gestione dei fondi alle pratiche consuetudinarie dei coloni e dei fattori[13]. É proprio su questo punto, preferendo cioè l’amministrazione diretta delle proprietà, che Ettore Ritter rompe con la consuetudine. L’acquisto dei fondi aquileiesi, bisognosi d’investimenti, ma suscettibili di grandi e potenziali incrementi produttivi, rientra in un’ottica imprenditoriale, mai trascurata dal brillante erede di Cristoforo Ritter. Il primo viaggio d’affari di Ettore Ritter, così scrive il figlio Eugenio nella Cronaca della famiglia, ha per obiettivo, nel 1837, l’acquisto di un cospicuo stock di barbatelle della regione del Reno, da impiantarsi nella tenuta di S. Daniele. Da ricordare, inoltre, che Ettore, in gioventù, è inviato per alcuni anni in Inghilterra, il paese europeo più avanzato non solo in campo industriale ma anche agricolo. La sua determinazione a perseguire il progresso e l’innovazione in ogni settore sono riconosciuti dalla Società Agraria[14], che, nel 1874, lo nomina membro del comitato istituito per studiare un progetto complessivo per la regolazione dell’Isonzo e per l’irrigazione dei terreni sulla sponda destra del fiume[15]. Offerta declinata, però, dal Nostro, evidentemente troppo impegnato nella gestione delle sue imprese.

Nel 1873, dopo poco più di venti anni, un articolo su Atti e Memorie della Società Agraria di Gorizia delinea una situazione drammatica[16]. Riprendendo un articolo dell’organo di stampa del Comizio agrario centrale della Sassonia prussiana, per sommi capi l’articolista goriziano pone l’accento sull’incremento dei costi di produzione (salari, concimi, difficoltà del credito), sulle  difficoltà dei trasporti[17], sull’esorbitante tassazione, ma, soprattutto, sulla staticità dei metodi agricoli dell’agricoltura comitale[18].

Nell’articolo della “Cerere”, precedentemente citato (1850), sono ricordate altre pratiche agrarie suscettibili di miglioramenti: la scarsa cura per gli animali, ad esempio, che si concreta nella perdita quasi completa del concime animale, e la dannosa associazione tra alberi da frutto, viti e cereali. Quest’ultima pratica si ricollega all’antica “piantata padana”[19], resa necessaria dai contratti di “colonato”: la convivenza di diverse piantagioni nell’ambito della “piantata” risponde allo scopo di assicurare i pagamenti dei diritti proprietari da un lato, e la sopravvivenza della famiglia contadina dall’altro. I proprietari più avveduti si rendono conto che la scarsa specializzazione dello colture  sui fondi goriziani insidia la qualità della produzione e, quindi, riduce i suoi spazi di mercato. Ancora una volta, il detto articolo pone l’accento sui rapporti contrattuali, come chiave per risolvere le difficoltà produttive dell’agricoltura goriziana. Nei decenni successivi, però, i progressi in quest’ambito sono inesistenti. Nel 1880, così si legge in un articolo nelle Memorie della Società d’agricoltura di Gorizia: “ Abbiamo detto che la seconda fra le principali cagioni di malcontento dei contadini, quella precisamente che li disaffeziona dal fondo che coltivano e dal luogo che li vide nascere, risiede nella durata eccessivamente breve dei contratti di fitto, i quali si stipulano di regola per un anno solo, sebbene con la condizione che abbiano a considerarsi tacitamente rinnovati di anno in anno ove non avvenga la disdetta in tempo utile da parte dell’un contraente o dell’altro. È però cosa di tutta evidenza che tali contratti  rendono oltre ogni dire precaria ed incerta la condizione dei coloni, e precario, del pari, lo stato di coltivazione dei terreni, perché basta il più piccolo turbamento nei rapporti fra proprietario e colono per provocare a fin d’anno lo scioglimento dell’affittanza[20].

Fig. 3

 

Immagine della cosiddetta “piantata padana” con sostegni vivi per le viti.

 

Purtroppo, nonostante l’esempio dei Ritter e di altri pionieri della gestione diretta come il Chiozza, o i Levi di Villanova di Farra[21], nella seconda metà del XIX secolo la possidenza goriziana paventa, per la massima parte, l’abbandono dell’antiquato sistema degli affitti colonici. Le cause di questo atteggiamento risiedono nell’abito mentale tradizionalista e classista, e nella difficoltà di reperire capitali a buon prezzo per gli investimenti. Nel frattempo, la produzione del prodotto commerciale per eccellenza dell’agricoltura goriziana, il vino, cardine delle rendite dei possidenti goriziani, subisce una caduta disastrosa. Già nel decennio Cinquanta dell’Ottocento le vigne sono aggredite da devastanti parassiti. Dopo la crittogama oidio e la peronospora, un fungo che si fissa sulle foglie impedendo la normale maturazione degli acini, altre malattie s’aggiungono a queste in un tragico crescendo: il vaiolo della vite (già noto), il black rot e il White rot (dal 1870), quest’ultimi provenienti dalle Americhe. Ultima in ordine di tempo, ma, forse, peggiore di tutti è la fillossera, piccolo insetto che attacca le radici delle viti. Proveniente, probabilmente, dalle Americhe, resiste a tutti i tentativi di combatterla[22]. La produzione di bozzoli serici, altro caposaldo dell’agricoltura goriziana, è anch’esso insidiato da parassiti che trasmettono varie malattie: “corpuscoli, calcino, macilenza, giallume[23].

Fig. 4

 

Foglie di vite attaccate dalla peronospora.

Da “Atti e Memorie della Società Agraria di Gorizia”, fascicolo anno 1892, p. 97.

 

 Le conseguenze sono gravissime per coloni e proprietari. La distruzione delle viti ripropone la necessità di prendere in mano la gestione delle tenute, di utilizzare manodopera salariata, ben trattata e ben diretta, secondo i moderni dettami della moderna tecnica agronomica, di effettuare investimenti in edifici e macchine[24]. A proposito della meccanizzazione, in un articolo su “Atti e memorie” del novembre 1874, si mette in rilievo come il progresso dell’agricoltura non dipende da alti dazi, ma dal basso prezzo del ferro e delle macchine: sarebbe anzi opportuno abbassare i dazi sulle macchine agricole, perché la maggiore domanda andrebbe a beneficio anche dei produttori nazionali, instaurando un circolo virtuoso[25]. Molto si discute, si propongono progetti interessanti, ma poco, in ogni modo, si muove nelle campagne goriziane: alcuni possidenti giungono a considerare l’emigrazione un fenomeno utile ad allentare le tensioni sociali nelle campagne. Al contrario, gran parte dei personaggi più illuminati dell’Accademia goriziana, e tra questi Guglielmo Ritter, ritengono che l’emigrazione sia una perdita di preziosa manodopera per la provincia. Le tensioni sociali sono latenti: già nel 1858 Ettore Ritter nella prima relazione della Camera di Commercio goriziana segnala il problema dei cosiddetti “sottani”, braccianti senza terra che si danno a furti e danneggiamenti. Nel 1870 il problema non appare risolto, semmai aggravato: scema la sicurezza nelle campagne e aumenta il numero dei furti e dei vagabondi[26]. Negli anni successivi la situazione non muta, anche se, a livello di discussione accademica, sembra vi siano dei progressi positivi[27]. A fronte di una possidenza trincerata nelle sue consuetudini, di un movimento d’innovatori sempre più isolato, nella realtà delle campagne goriziane la grande novità è quella del movimento cattolico: esso propone l’opposizione alla grande azienda capitalistica[28] e la tutela della piccola proprietà contadina attraverso i nuovi organismi cooperativi (casse rurali, assicurazioni, cooperative d’acquisto)[29]. A quest’ultimi aderiscono anche alcuni possidenti, ma la stampa della Società agraria trascura questa presenza innovativa. Solo pochi anni prima della guerra la cosiddetta “questione colonica” trova una parziale soluzione, poi cancellata dagli esiti del conflitto[30].

 

Fig. 5

 

Tratto da “Atti e Memorie della Società Agraria di Gorizia”, fascicolo 1876, p. 274.

La tenuta di Monastero.

Nei primi anni Trenta del secolo, Ettore Ritter era stato inviato dal padre Cristoforo in Inghilterra per osservare le caratteristiche produttive e sociali di quella che era la prima società industriale del mondo. Qui Ettore aveva potuto conoscere non solo la struttura industriale e finanziaria, ma anche notare la grande produttività dell’agricoltura inglese, in grado di nutrire folte schiere di operai inurbati. Nel 1849 egli è presidente della Società Agraria, che nella prima metà del secolo aveva condotto una vita decorosa, ma sostanzialmente avulsa dalla realtà produttiva. Tra il 1850 e il 1878 Ettore Ritter procede all’acquisto della tenuta di Monastero dal Conte Cassis Faraone e di numerosi appezzamenti nell’agro aquileiese.  Non è certo l’unico personaggio di spicco ad effettuare investimenti nella bassa pianura, intersecata da canali e già ricca ai tempi di Roma. Negli anni Cinquanta Ettore Ritter assume cospicue responsabilità nella gestione della politica industriale della famiglia e, come presidente della Camera di Commercio e industria, dell’intero Circolo di Gorizia. Possiamo supporre che pensi ad una diversificazione degli investimenti “reali”, in un momento di euforia finanziaria[31]. Ettore, inoltre, era a conoscenza dell’importanza cruciale di un’efficiente produzione agricola nel momento in cui, con il prevedibile sviluppo dell’industria, una parte  della forza lavoro sarebbe stata attratta dalle campagne agli impieghi manifatturieri. Oltre ad essere un buon affare, un’efficace gestione della tenuta aquileiese poteva avere anche un effetto di “dimostrazione” positiva sugli altri possidenti, stimolando innovazioni e miglioramenti nel settore agricolo[32].  L’obiettivo di Ettore è, quindi, anche quello di assumere una leadership  nell’ambito del possesso  fondiario per consolidare il ruolo egemonico della famiglia in campo economico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                Nel 1873 appare sulle Memorie della Società agraria di Gorizia l’articolo “Di una escursione agraria a Monastero[33]. In sei pagine è descritta l’attività produttiva che si svolge nella tenuta, insistendo sui caratteri innovativi della gestione Ritter. L’articolo appare in concomitanza con la pubblicazione di Gorizia, la Nizza Austriaca, in cui il barone Czoernig prefigura per la provincia goriziana il ruolo di fornitrice di derrate alimentari e primizie per il centro dell’impero, Vienna[34]. La concomitanza non è casuale a nostro parere, perché tra i Ritter e Czoernig ci fu una notevole coincidenza di programmi politici ed economici. Purtroppo il 1873 è anche l’anno in cui esplode la bolla speculativa sui mercati finanziari di Vienna e di Berlino[35]. Inizia, così, un ventennio caratterizzato da crisi economiche ricorrenti[36], aggravate nel settore agricolo europeo dall’afflusso di cereali a basso prezzo dall’America nel decennio Ottanta: la conseguente crisi dell’agricoltura goriziana dimostra la bontà delle scelte innovative dei Ritter che, però, continuano a restare attori isolati assieme a pochi altri pionieri, come il Chiozza (Scodovacca), il Levi (Villanova), il Della Torre (Romans). Mancano strumenti di credito per far affluire capitali in agricoltura, ma, soprattutto, manca il coraggio di alterare i rapporti sociali e contrattuali esistenti, di cui i contratti di colonato erano il carattere più tangibile. La tenuta di Monastero può rispondere efficacemente alle sfide che nella seconda metà del secolo le vengono incontro. Sarà sempre lontana, però, dagli ideali dell’universo goriziano per il quale il mondo non può procedere se non con “posata ed aristocratica lentezza”.

La visita a Monastero è effettuata il 17 marzo 1873 da una classe d’allievi di un istituto tecnico agronomico udinese.

L’escursione di studio inizia con la visita alle stalle che ospitano i cavalli impiegati per i lavori nei campi[37]. L’uso del cavallo è preferito a quello dei buoi per la maggior forza degli animali e per la velocità con cui può essere effettuato ogni genere di lavoro. Il cavallo ha esigenze più cospicue in fatto di alimentazione, ma questo è compensato dalla sua maggiore efficienza al traino[38]. La pulizia delle stalle ed il conseguente benessere degli animali emergono anche in un passo successivo: ”Spaziosa, ben costrutta, e utilmente orientata è la stalla … fornita di 14 finestre che ampie ed aperte in alto nelle pareti laterali, insieme ad opportuni ventilatori mantengono l’aria dell’ambiente con vantaggio ricambiata e quindi molto propria alla salubrità dei custoditivi animali [39]”.  Gli animali sono ben trattati ma anche ben nutriti, con una mistura di erba medica, radici di barbabietole, pula di riso con crusca di frumento e panello di ravizzone[40]. Lo stabilimento produce latte usato sia per la produzione di burro che per la vendita. Anzi l’azienda stessa valuta, volta a volta, se è più utile produrre il burro o esitare il latte sul mercato triestino[41].

Accanto agli animali sono mostrati nuovi aratri (Hohenhelm e Grignon) costruiti nelle officine della fattoria: la costruzione in loco si propone di realizzare manufatti adatti “ai terreni, alle abitudini dei coltivatori e al bestiame da tiro”[42].

Anche nella sistemazione dei campi sono impiegati manufatti prodotti in loco. È utile proporre la lettura integrale del brano relativo perché indicativo dell’approccio alla produzione agricola moderna.

“Venivano indi mostrati negli ordinati e ben colmati campi, ove occupati dal frumento nel più lusinghiero aspetto, ove dai foraggi, ed ove approntati alle coltivazioni primaverili, gli effetti benefici della fognatura tubolare, in larga scala ivi attivata. Furono indicati i luoghi di scarico delle fogne collettive nei fossi maestri di scolo. Fu detto come le cannelle di terra cotta all’uopo necessarie venissero approntate per cura della medesima amministrazione nel luogo, formandole mercè utile argilla trovata in quelle campagne, con convenienti macchine, e poi in bene appropriato asciugatoio prosciugate e indi in fornace economica e molto opportuna sottoposte alla necessaria cottura. Fu fatta attenzione allo sviluppo vantaggioso, … del frumento seminato a mezzo della seminatrice meccanica”[43].

I terreni aquileiesi sono soggetti a ristagni d’acqua e per questo la proprietà ha previsto una fitta rete di tubazioni di scolo, che difficilmente possono otturarsi: questa è la sistemazione fondamentale per una regolazione del terreno agrario in questi siti. Nei terreni più prossimi al mare sono utilizzate macchine a vapore per sollevare l’acqua e smaltirla nei canali di scolo. Frequente è il riferimento all’uso di macchine e attrezzi specifici per organizzare il lavoro agricolo, senza sprechi e con risparmio di manodopera. Nel brano sopra riportato troviamo l’accenno alla seminatrice, e, in altra parte dell’articolo, sono descritte una trebbiatrice a vapore e una macchina sgranatrice manuale che, azionata da tre uomini, permette di separare i grani del mais dai tutoli con notevole efficienza: in una giornata di lavoro, infatti, è possibile recuperare con questa macchina 50 ettolitri di granella[44]. Per lavorare a fondo i terreni aquileiesi, spesso argillosi, infine, si ricorre a “ripuntatori” o “scarificatori”[45], erpici[46]. La presenza di macchine a vapore è segnalata nelle dipendenze di Ronchi, Beligna, Paludo Anfora e Paludo Ausa. L’inventario compilato per la successione di Ettore Ritter segnala la presenza a Monastero di un locomobile, macchina a vapore mobile usata per azionare trebbiatrici e tagliatrici di paglia. Secondo l’inventario il valore complessivo di animali e macchine nel 1879 è pari a 48.635 fiorini, a fronte di 291.161 fiorini per capitale fisso (terre e costruzioni)[47].

La tenuta dispone anche di un mulino per macinare ossa animali: grazie al mulino si ricava il componente essenziale di una mistura di cenere e polvere d’ossa[48] (ottanta per cento cenere e venti per cento polvere d’ossa) usata nella concimazione dei campi, nella misura di 8,5 quintali per ettaro.

La concimazione è, in genere, un’operazione cui l’azienda dedica molte cure: sui campi invernali s’arriva ad effettuare la concimazione con sterco di buoi e cavalli nella misura di 400 quintali per ettaro. La gran quantità di concime impiegata su terreni cerealicoli non deve stupire, perché nella seconda metà del XIX secolo la fisiologia delle piante cominciava ad essere nota, soprattutto grazie alle opere di Justus Liebig (1803-1873)[49]. Con tali trattamenti, ottimi sono i raccolti di granturco e di rinomata qualità: nel 1861 all’esposizione internazionale di Londra sono inviate le pannocchie del granturco giallo pallido e di quello bianco coltivate a Monastero[50].

Infine le vigne. Nella tenuta di Monastero non esiste consociazione tra viti e altre coltivazioni. Queste ultime sono messe a dimora separatamente per qualità diverse, utilizzando vitigni stranieri: Riesling, Borgogna, Traminer. Le piante sono tenute basse per agevolare la vendemmia e sono sostenute da pali secchi. Le aree vitate sono accuratamente zappate per evitare la crescita di piante infestanti[51]. I vini bianchi di Monastero sono particolarmente lodati nel corso della Riunione generale della Società Agraria goriziana, tenuta a Cervignano il 4 ottobre 1876[52], mentre il vino Refosco riceve la medaglia d’argento nel concorso organizzato il giorno dopo a Strassoldo[53].

L’articolo fa cenno, in finale, alla coltivazione del riso, coltura industriale che avrà un notevole sviluppo nei decenni successivi anche nella Bassa Pianura Friulana italiana[54].

Un articolo del 1877 informa, ancora, che la direzione di Monastero diffonde la coltivazione del ravizzone, utilizzato come foraggio per gli animali e concime, e quella del “Salice da canestrajo”, che assicura notevoli profitti grazie alla vendita dei vimini[55]

Monastero è l’antitesi della classica tenuta goriziana. In essa rileviamo la sistemazione preventiva dei terreni, la rottura della consociazione viti - colture cerealicole, disponibilità di concime, stalle ben curate, trazione tramite equini, impiego di macchine, conduzione diretta, impiego di manodopera salariata.

C’è, però, un ultimo punto che mostra la capacità innovativa della gestione Ritter, la contabilità analitica applicata ai fondi agricoli. Per ogni particella è tenuto il computo delle entrate e delle uscite: materiali, manodopera, impiego macchine, produzione ottenuta. In questo modo la proprietà è in grado di calcolare con buona approssimazione la rendita a raccolto concluso. La conoscenza della rendita permette di cambiare la destinazione della particella colturale in caso di perdite. Si dispone, pertanto, di uno strumento in grado di orientare le scelte gestionali verso la massimizzazione del profitto complessivo della tenuta[56]. L’organizzazione di Monastero è amministrata da fattori stipendiati, ma sotto la direzione di Ettore Ritter. Alla sua morte, nel 1878, la Deputazione centrale della Società Agraria lo celebra come “uno dei più zelanti ed operosi promotori dell’agricoltura razionale[57]

L’innovazione agraria si compone di una combinazione di fattori: investimento, cambiamento dei rapporti sociali (transizione della manodopera da contratti di mezzadria colonica a contratto bracciantile), impiego di macchine, strumenti di misurazione del profitto. Ma, anche, della capacità di individuare nuovi segmenti d’attività. Pochi anni dopo la tenuta di Monastero organizzerà vivai di barbatelle di vite per rifornire i viticoltori provinciali i cui impianti erano stati distrutti dalle malattie. Questa attività giunge a compensare le perdite sulla produzione di cereali, i cui prezzi sono calanti a partire dai primi anni Ottanta del secolo.

La riproduzione di barbatelle resistenti ai parassiti trova ampio spazio nel breve “Ragguaglio pubblicato in occasione dell’Esposizione mondiale di Parigi 1900” a cura di Eugenio Ritter[58]  seguente di poco più di un quarto di secolo l’articolo del 1873. In questa sede Eugenio, figlio di Ettore, si sofferma sulle produzioni della tenuta all’inizio del XX secolo: dai vini, al riso, alle barbatelle, dal latte ai bachi da seta. Nel 1900 Monastero si estende su 1200 ettari e i terreni sono coltivati nella stragrande maggioranza direttamente dalla proprietà (cinque sesti), mentre i restanti sono affidati a coloni in mezzadria. La tenuta dispone di un brillatoio dotato di turbina idraulica per la pilatura del riso, due mulini idraulici, una latteria. Nei terreni coltivati a risaia, è in attività una turbina a vapore, mentre sono operative diverse trebbiatrici a vapore[59]. Nel capitolo dedicato alla viticoltura si dice che Monastero e i comuni limitrofi sono immuni dalla fillossera[60]. Un pregio importante ricordando le difficoltà della viticoltura goriziana nella seconda metà del XIX secolo di cui abbiamo già fatto cenno. Una delle soluzioni per combattere la fillossera, che colpisce le radici delle piante, è l’innesto di viti europee su zoccolo di viti americane. La direzione di Monastero, perciò, s’affida per le nuove piantagioni a viti innestate sopra zoccolo americano, forse anche a titolo di presentazione dell’attività del vivaio di viti madri americane. Questo vivaio occupa 12 ettari e fornisce due milioni di “magliuoli”: cliente di riguardo per i porta innesti americani è anche il Ministero dell’agricoltura austriaco, cosa che attesta la bontà della produzione aquileiese. Questa attività raggiunge un tale livello monopolista, da indurre nel 1904 la Società Agraria (in cui Eugenio Ritter non occupa più un ruolo rilevante) a presentare al governo  un progetto per l’impianto di un vivaio di barbatelle provinciale, onde evitare “la speculazione privata”[61]. Se la coltivazione del riso a Monastero si riduce sullo scorcio del secolo a causa della disastrosa concorrenza del riso asiatico, la produzione di latte rappresenta sempre un settore ad alto valore aggiunto, indirizzata all’approvvigionamento del vicino mercato triestino[62]. L’allevamento di vacche da latte richiede un’efficiente praticoltura, cui si dedicano sforzi tecnici ed organizzativi. I terreni destinati a piante foraggiere sono collocati principalmente nelle località più vicine al mare. Per questo motivo sono difesi da argini e da “saracinesche automatiche”, e per prosciugare i prati a primavera è utilizzata una turbina a vapore. Lo strame per le stalle è ricavato da giunchi palustri, dando così pari importanza alla tecnologia corrente e alla tradizione locale. Anche il “Ragguaglio” del 1900 mette in rilievo, così, la continua ricerca d’opportunità e di attività redditizie. Si configura, pertanto, una gestione non statica e tradizionalista[63], attenta al mercato, come già osservato nel citato articolo del 1873, ma capace di rivalutare gli aspetti positivi della tradizione.

Ultimo settore strategico per l’efficienza di Monastero è quello dei trasporti. L’interesse per i trasporti è, possiamo dire, un tratto “genetico” dei Ritter quali imprenditori. Cristoforo Ritter aveva creato la sua fortuna con un trasporto marittimo di salnitro. In seguito, la costruzione della grande raffineria zuccheri di Gorizia aveva spinto la famiglia a curare le vie di comunicazioni terrestri con il settentrione: lo zucchero era esportato verso i mercati di consumo austriaci su grandi carri a trazione animale, i cosiddetti “parisenwagen”. Nel 1856, Ettore Ritter fa pressioni sui circoli imperiali perché il percorso della Ferrovia Meridionale Trieste-Venezia tocchi Gorizia: nasce allora la deviazione ferroviaria, nota ancor oggi come “ansa di Gorizia”. Nel primo lustro degli anni Ottanta del XIX secolo, la tenuta aquileiese può esportare i suoi vini e la sua produzione attraverso i canali e la navigazione di cabotaggio verso Trieste. Da qui la produzione raggiunge ogni angolo del mondo, ma, in particolare, il centro dell’impero, Vienna. Il trasporto ferroviario garantisce, però, maggiori potenzialità in termini di quantità trasportate ed affidabilità. Nel 1888 Eugenio Ritter, presidente allora della Camera di Commercio goriziana e figlio di Ettore, pubblica quello che possiamo definire un “manifesto” per i trasporti nella provincia. Nel suo opuscolo “Le nuove risorse del Friuli Goriziano” sollecita investimenti per la costruzione delle cosiddette “ferrovie economiche”: i binari di questi treni leggeri dovevano diramarsi da Gorizia verso Cervignano, e da qui raggiungere Aquileia. Era un progetto inteso a ridare centralità commerciale a Gorizia collegandola con la Bassa Pianura friulana. “Le nuove risorse del Friuli Goriziano” può essere letto come un documento di “programmazione dello sviluppo economico e di organizzazione del territorio”, dove le ferrovie locali sono gli assi su cui poggia l’assetto territoriale[64]. Le ferrovie locali di Eugenio Ritter si propongono di abbracciare la quasi totalità delle Contee di Gorizia e Gradisca con la realizzazione di una struttura urbana allargata con possibilità di collegamenti nord-sud ed est-ovest. Non solo le grandi proprietà dell’agro aquileiese potrebbero raggiungere via ferrovia Trieste e poi Vienna[65], ma Gorizia si affaccerebbe al mare tramite i porti fluviali di Cervignano ed Aquileia, e da questi ultimi a Trieste e al Levante. L’obiettivo è di valorizzare non solo le esportazioni, ma anche la vocazione turistica del capoluogo e della provincia. Il progetto, però, non riesce a decollare per i veti incrociati dei paesi della Bassa Pianura e di quelli della montagna, mentre, nel 1894, è costruita la Trieste - Cervignano, la direttrice per l’Italia[66]. Il progetto di Eugenio Ritter è ripreso nel 1906 dal presidente, G. Pajer e dal segretario della Società Agraria, C. Hugues, nell’articolo “Per una ferrovia economica tra Gorizia e Cervignano[67], in occasione dell’inaugurazione della ferrovia Transalpina. Ma il “sistema ferroviario Ritter” non è mai realizzato. Pochi anni più tardi, nel 1910, è inaugurata la ferrovia Cervignano-Belvedere Grado, che stabilisce, per vie tortuose[68], una direttrice tra Bassa Pianura, Gorizia e centro dell’Impero. È il caso di dirlo: troppo poco e troppo tardi. 

Fig. 6

 

Pompe da vino. Da “Atti e Memorie della Società Agraria di Gorizia”, fascicolo 1876, p. 293.

 

Fig. 7

 

Pigiatoio da uve. Da “Atti e Memorie della Società Agraria di Gorizia”, fascicolo 1876, p. 516.

 

Fig. 8

 

Nuova macchina per la distillazione. Da “Atti e Memorie della Società Agraria di Gorizia”, fascicolo 1877, p. 488.

 


[1] Il contratto d’acquisto è presente in Archivio di Stato di Gorizia (poi ASGO), Libri Strumenti Tavolari, (poi LST) b. 163, tomo 202, doc. 922 del 18 agosto 1830. La Signoria di S. Daniele comprendeva oltre a case e terreni nelle immediate vicinanze di S. Daniele del Carso anche centri più prossimi a Trieste come Pliscavizza, Brestovizza e Dottogliano (Duttogliano, oggi Dutolje).

[2] Ibid.

[3] ASGO, LST, b. 216, tomo 259, doc. 1903 del 21 marzo 1840. Esecuzione testamento G. Cristoforo Ritter. Ibid., b. 266, tomo 313, doc. 526 del 19 maggio 1849.

[4] ASGO, LST, b. 282, tomo 326, doc. 598 del 22 maggio 1851. La vertenza riguardava le case numero 18 e 61 di S. Daniele, ed era già iniziata nel 1834 su iniziativa di Giovanni Cristoforo Ritter. Michele Coronini, il venditore, non aveva intavolato correttamente all’acquirente i due enti. La vertenza si chiude, pertanto, solo dopo diciotto anni.

[5] ASGO, LST, b. 282, tomo 344, doc. 773 del 26 maggio 1854. A S. Daniele, borgo Cobdil, nasce nel 1865 l’architetto Massimiliano Fabiani.

[6]Il giro del mondo in ottanta giorni” di Jules Verne illustra, sotto specie di racconto avventuroso, la realtà del tempo. La tecnologia europea del vapore e della meccanica aveva unito il mondo nella sua prima rete globale. Nel XIX secolo, però, muovono i primi passi anche la fotografia e il cinema.

[7] Su questi autori si veda in particolare Antonio SALTINI, Storia delle scienze agrarie, Edagricole, Bologna, 1979.

[8] Cfr. Justus LIEBIG, La chimica applicata all’agricoltura ed alla fisiologia, Federico Volke, Vienna 1844. a pag. 6 del testo così scrive il Liebig: “Senza un’estesa e ben fondata cognizione dei nutrimenti delle piante nonché delle fonti d’onde sorgono non si può ammettere il perfezionamento dell’industria, fra tutte principale, dell’agricoltura”.

[9] Cfr. Bernard Hendrik SLICHER van BATH, Storia agraria dell’Europa occidentale, Einaudi, Torino, 1972, p. 415.

[10] Così in un articolo di “Atti e Memorie dell’i.r. Società Agraria di Gorizia” fasc. anno 1888, p. 102: “E a proposito dell’America, è da riflettere che dessa è quattro volte in superficie l’Europa; ha quattro volte meno popolazione; i terreni, specie là dove è rivolta l’emigrazione dei nostri contadini, non costano nulla; non li aggrava alcuna imposta; sono vergini; vi si applica direttamente la cultura razionale; si ara a vapore, si semina a vapore, si miete a vapore, si trasporta a vapore”.

[11] Tra il 1840 e il 1888 la superficie coltivata aumentò del cinquanta per cento, cioè da 500 a 750 milioni di acri. Metà di questo aumento si verificò nelle Americhe. Cfr. Eric HOBSBAWN, Il trionfo della borghesia (1848-1875), Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 218-219.

[12] Cfr. Furio BIANCO, - L’armonia sociale nelle campagne-. Economia agricola e questione colonica nella Principesca Contea di Gorizia e Gradisca tra ‘800 e ‘900, in AA.VV., Economia e società nel Goriziano tra 800 e 900, a cura di F. Bianco e M. Masau Dan, Monfalcone, Edizioni della Laguna, 1991, pp. 33-66.

[13] Cfr. Difetti più notabili e generali della nostra agricoltura, in “La Cerere”, anno I, n. 1, 2 novembre 1850, p. 6.

[14] Ettore Ritter entra nella Società Agraria nel 1845. Dal 1848 è membro della Deputazione centrale.

[15] Cfr. “Atti e memorie della Società Agraria di Gorizia” (poi “A.M.S.A.G.”), anno XIII, nn. 4-7 del primo aprile 1874, seduta del 9 marzo 1874, p. 91. “È deliberata la nomina di un comitato di 5 membri (poi 7) da farsi dalla Deputazione centrale, il quale abbia ad iniziare l’opera d’irrigazione anche alla sponda destra dell’Isonzo dai monti al mare, con la contemporanea regolazione di quel fiume e dei suoi confluenti, commettendo gli studi a valenti uomini in arte”. I sette membri del comitato sono: Ettore Ritter, Francesco Candussi (Romans), Alberto Levi (Villanova), Michele Locatelli (Cormòns), Nicolò Mantica (Soleschiano), l’ingegner Raffaele de Vicentini (Trieste), Giuseppe Ferdinando Del Torre (Romans).

[16]  Cfr.  “Condizioni agricole”, in “A.M.S.A.G.”, n. 1 del primo gennaio 1873, anno XII, pp. 10-11.

[17] Ibid., p. 10. “I mezzi di comunicazione sono ancora imperfetti; devesi far fronte ad una rovinosa concorrenza da parte di paesi sparsi su tutto il globo terracqueo, i quali favoriti da un suolo vergine possono produrre con tenue spesa e si valgono di bassi noli marittimi, e delle ferrovie che li favoriscono con tariffe differenziali – di quelle ferrovie costruite in parte con i nostri denari - (leggi Ungheria, n.d.A.) per dominare i nostri mercati con alcuni importanti prodotti, come p.e. lana, animali da macello, frumento”. Il ruolo delle ferrovie nel determinare la decadenza dell’agricoltura goriziana è rilevato nelle Pertrattazioni della prima Dieta Provinciale, 1861-1866, seduta del 26 marzo 1863, pp. 460-461: “Col vino, con l’utile del gelso scomparvero veramente appo di noi la rendita netta, perché la minor bontà e quantità di cereali che danno attualmente i fondi, non arrivano ad agguagliare il valore del vino che se ne ritraeva un tempo; ora che l’agricoltura è in decadenza e la favorevole combinazione della vicinanza di un porto marittimo, la quale un dì procurava un pronto e profittevole smercio dei nostri granai ora è per noi cessata, dacché il Banato e l’Ungheria e altre regioni ci opprimono con una insuperabile concorrenza pel tramite delle ferrovie”. Sull’evoluzione dei differenziali economici interni all’impero asburgico nella seconda metà del XIX secolo si veda David GOOD, The economic rise of the Habsburg Empire, 1750-1914, Berkeley and Los Angeles, University of California press, 1984, pp.125 e sg.

[18] Ibid. “La coltura dei nostri operai agricoli ed in gran parte anche dei possidenti non è tale da promettere nei prossimi tempi un decisivo progresso nel sistema di coltivazione”.

[19] La piantata padana, di origine etrusca, era estesa in epoca moderna e contemporanea in tutta la pianura padana. Nella “piantata” la vite era maritata a “sostegno vivo”, cioè un albero, olmo o albero da frutta. Questa struttura aveva in passato caratteristiche positive innegabili: i tralci delle viti portavano i grappoli ad una certa altezza, e ciò garantiva buona insolazione e scarso contatto con zone umide. L’uso di tecniche moderne, a partire dal XIX secolo in poi, rende poco economica questa organizzazione fondiaria. Da ricordare che tra i filari di viti erano coltivati i cereali, godenti, però, di scarsa insolazione. La coltivazione dei cereali tra i filari di viti comportava, però, una bassa produttività dei semi di grano o degli altri cereali.

[20]  Cfr. “Ancora della emigrazione” in “A.M.S.A.G.”, n. 1 del primo gennaio 1880, pp. 8-9.

[21] In “Utilità degli esperimenti in agricoltura”, “A.M.S.A.G.”, anno VIII, n. 17 del 10 settembre 1869, p. 235, gli esperimenti in agricoltura sono, in ogni modo, lodati: “Sotto questi punti di vista dobbiamo essere grati a quei campioni, come un Levi (Villanova di Farra), un Chiozza, un Ritter, un Pollai, i quali senza risparmio di spese hanno il coraggio di slanciarsi nell’incerto mare delle novità agrarie, dopodichè dopo qualche periodo necessario per conoscere i buoni e i cattivi risultati, veniamo loro mercè a giudicare cosa veramente faccia per noi”. Sull’attività di Luigi Chiozza cfr. L’attività imprenditoriale di Luigi Chiozza: dalla tenuta modello all’edificio macchina, a cura di Furio Bianco, Udine, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, 1986.

[22] La minaccia della filossera è segnalata in articoli su “A.M.S.A.G.”, anno VII, n. 19 del 10 ottobre 1868, p. 239, e anno XI, nn. 16-17, del 15 novembre 1872, p. 269.

[23] Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno XIII, nn. 12-13, primo luglio 1874, “Le malattie del baco da seta”, p. 197-206.

[24] Così scrive Carlo de Colombicchio a proposito della produzione vinicola nel 1864: “ … Non l’empirismo da noi radicato, … ci vuole uno studio continuo, pazienza solerte e qualche dispendio, il quale se ben condotto potrebbe negli anni rendere il 100 per 100 …”. Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno III, numero 16, 25 agosto 1864, p. 237.

[25] Ibid., anno XIV, nn. 7-8 del 18 febbraio 1875, p. 144.

[26] Ibid., anno IX, n. 11 del  10 luglio 1870, “Delle elezioni”, p. 177. Anche sul n. 17 del 10 settembre 1870 nell’articolo “Tutela della proprietà agraria”, p. 273, si lamenta l’incremento dei furti campestri.

[27] Si veda “L’evoluzione degli organi di stampa della Società d’agricoltura di Gorizia e  dei principali filoni di discussione nel XIX secolo”.

[28] Traccia di questa opposizione si ritrova nell’ultima pagina della Cronik und Stammbaum der Familie Ritter aus Frankfurt, Brünn, 1915, di Eugenio Ritter. Cfr. anche BIANCO, - L’armonia sociale nelle campagne-, cit., p. 53.

[29] Sugli organismi cooperativi e sul movimento cattolico nelle campagne cfr. Gian Francesco CROMAZ, Cooperazione cattolica e riforma agraria nel Friuli Austriaco, 1896-1918, Federazione delle banche di credito cooperativo del Friuli Venezia Giulia, 1994. Anche Fulvio SALIMBENI, Le casse rurali della Venezia Giulia. Note per uno studio di storia sociale, in Casse rurali ed artigiane. Dalle origini all’inserimento nella moderna struttura bancaria, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine, Federazione regionale Casse rurali ed artigiane del Friuli Venezia Giulia, 1986, pp. 114-134. Infine A. LUCHITTA, La crisi dell’agricoltura della Contea e gli sviluppi dell’associazionismo nella seconda metà del XIX secolo, in La Camera di commercio di Gorizia, 1850-2000. Uomini e lavoro in 150 anni di storia, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2001, pp. 49-56.

[30] Cfr. BIANCO, “ -L’armonia sociale nelle campagne- , cit., pp. 33-66.

[31] Gli anni Cinquanta del XIX secolo sono caratterizzati in Austria da uno slancio economico che ha termine nel 1858 con una grave crisi finanziaria. Si deve ricordare che agli inizi del decennio erano stati scoperti i giacimenti aurei della California, e questo fatto aveva messo a disposizione degli operatori nuovi mezzi di pagamento, incrementando il dinamismo dell’economia mondiale. Lo slancio austriaco del decennio Cinquanta dipende, quindi, anche dalle scoperte californiane.

[32] L’arretratezza dell’agricoltura austriaca è considerata da alcuni studiosi una delle cause del carente sviluppo industriale dei territori asburgici. La chiusura mentale di molti proprietari contrasta con la personalità di Ettore Ritter, persona aperta alla sperimentazione. Quando la raffineria di zucchero di canna a Gorizia perde competitività per l’allargamento della produzione di zucchero di barbabietola, inizia la coltivazione di queste radici a Monastero, per sperimentare egli stesso le possibilità d’inserimento nel mercato. Vari fattori (trasporto, costo degli investimenti) lo inducono, però, ad accantonare questa impresa.

[33] Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno XII, numeri 17-18, 25 novembre 1873, pp. 323-329.

[34] Cfr. Carl von CZOERNIG, Gorizia la Nizza Austrica, Gorizia, Cassa di Risparmio di Gorizia, 1987.

[35] La crisi del 1873 si collega ad una caduta degli affari a livello internazionale iniziata nel 1872 e prolungatasi fino al 1876. Cfr. Marco FORTIS, Competizione tecnologica e sviluppo industriale. Fasi dell’economia mondiale tra il 1850 e il 1990, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 25 e sg.

[36] Altre crisi economiche a livello internazionale avvengono tra il 1883 e il 1887, e, nel successivo decennio Novanta, tra il 1890 e il 1895. Cfr. FORTIS, op. cit.

[37] Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno XII, numeri 17-18, 25 novembre 1873,  p. 324.

[38] Nelle stalle di Monastero nel 1879 sono presenti 26 cavalli da tiro, mentre i buoi da tiro, usati prevalentemente in terreni paludosi erano 56. Cfr. ASGO, Tribunale circolare di Gorizia, Archivio generale, 1854-1897, b. 233, f. 24, ventilazione in morte di Ettore Ritter, 1878. Inventario di Monastero, Ponau, Greifenburg, Zahony.

[39] Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno XII, numeri 17-18, 25 novembre 1873, p. 325.

[40] Ibid.

[41] Ibid., p. 328.

[42] Nelle dipendenze di Monastero, Ronchi e Beligna, erano presenti nel 1879 ventitre aratri tra normali e rincalzatori, e sei erpici. Cfr. ASGO, Tribunale circolare di Gorizia, Archivio generale, 1854-1897, b. 233, f. 24, ventilazione in morte di Ettore Ritter, 1878. Inventario di Monastero, Ponau, Greifenburg, Zahony. 

[43] Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno XII, numeri 17-18, 25 novembre 1873, p. 324.

[44] Ibid., pp. 328-329.

[45] Ripuntatori e scarificatori sono attrezzi agricoli che fessurano il terreno senza rivoltarlo per favorire il drenaggio del terreno: sono utilizzati quando il terreno è pesante o argilloso. In certi aratri il ripuntatore è associato al vomere.

[46] L’erpice è usato per rompere le zolle rivoltate dopo l’aratura profonda.

[47] Cfr. ASGO, Tribunale circolare di Gorizia, Archivio generale, 1854-1897, b. 233, f. 24, ventilazione in morte di Ettore Ritter, 1878. Inventario di Monastero, Ponau, Greifenburg, Zahony.

[48] Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno XII, numeri 17-18, 25 novembre 1873, p. 325. Da notare la curiosità: le ossa macinate provengono in parte dall’antica Aquileia, emerse in seguito a scavi.

49 Cfr. LIEBIG, La chimica applicata all’agricoltura e alla fisiologia, op. cit., e LIEBIG, La terra e la pratica dell’agricoltura, Milano, 1857.

50 Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno I, numero 5, maggio 1862, p. 44.

51 Ibid., anno XII, numeri 17-18, 25 novembre 1873, p. 328. Già nella seduta del 21 aprile 1863, Ettore Ritter era intervenuto in merito alla coltivazione delle viti: “Il deputato de Ritter osserva essere inutile di parlare oggi del perfezionamento del vino sino a che non si introduca un nuovo sistema di coltura delle viti. La vite doveva assolutamente essere scelta e trattata razionalmente da per sé in vigneti, ed allora soltanto si potrà parlare di condizioni normali, le quali ammettono una più perfetta e proficua fabbricazione del vino”. Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno II, numero 9, maggio 1863.

52 Ibid., anno XV, n.10, 1876, p. 402.

53 Ibid., p. 410.

54 Già nel 1864, nel corso dell’adunanza generale della Società Agraria, tenuta a Monastero, i soci avevano potuto prendere visione delle risaie di Aquileia. Cfr. “A.M.S.A.G.”, anno III, numero 22, del 25 novembre 1864, p. 334.

55 Cfr. Giuseppe VELICOGNA, Una escursione nel Friuli Goriziano, in “A.M.S.A.G.”, anno XVI, nn. 11-12, 1877, p. 351.

56 Nella concezione degli agronomi più innovativi l’attenzione alla contabilit&am

Luchitta Alberto

Luchitta Alberto

gcvbnjgcfcgvhbjnkl